La culpa in educando e la culpa in vigilando designano due sfaccettature di una medesima nozione, due prospettive di una medesima realtà, due lati di un medesimo volto. Così, la colpa non è solo, sic et simpliciter, imperizia, imprudenza o negligenza (colpa generica) o l’inosservanza di ordini, leggi, regolamenti o discipline (colpa specifica). Essa costituisce in primo luogo inadempimento.
Inadempimento rispetto a che cosa? A quale obbligazione?
A un generale dovere di protezione e di tutela imposto dai principi generali dell’ordinamento sociale, giuridico ed economico. Il riferimento normativo di tale dovere si rintraccia in primo luogo nell’art. 40 comma 2 c.p. (posizioni di garanzia), di cui sono espressione altresì altri articoli, quali epifanie derivate dalla luce primaria irradiata dalla predetta norma penale, quali l’art. 2087 c.c. e l’art. 140 del Codice della strada.
Le posizioni di garanzia sono state distinte dalla dottrina in posizioni di garanzia di controllo e di garanzia di protezione. Esempi delle prime sono rappresentati dal ruolo del collegio sindacale rispetto all’operato degli amministratori, dal ruolo del sistema dei controlli interni negli enti locali, dal ruolo del segretario comunale rispetto ai Comuni, dalla Banca d’Italia rispetto all’attività delle singole banche, specie in cui la prima rilascia l’autorizzazione a svolgere l’attività bancaria, dal ruolo del Garante per la protezione dei dati personali rispetto ai titolari del trattamento, dal ruolo del consiglio di amministrazione rispetto all’amministratore delegato, dal ruolo del rappresentato rispetto al rappresentante, dal ruolo del delegante rispetto al delegato. Esempi delle seconde sono costituiti dal ruolo del maestro di sci, nuoto o altre attività sportive verso gli allievi, dal ruolo dell’insegnante verso gli allievi, dal ruolo dei genitori verso i figli, dal ruolo del tutore verso l’interdetto, dal ruolo del banchiere verso l’investitore, dal ruolo del poliziotto, della guardia giurata o del capo scorta rispetto alla persona che essi sono chiamati a proteggere.
Delineati i tratti essenziali della tematica, occorre fare però un passo indietro, sotto il profilo storico.
La culpa in vigilando e quella in educando rappresentano due “quid” non solo “in negativo”, ma anche “in positivo” e si riconnettono a due grandi linee culturali: l’educazione e l’erudizione (culpa in educando) e la tutela patrimoniale (culpa in vigilando).
La prima direttrice è stata segnata, nella storia del pensiero letterario e filosofico, dalle opere di Kant, con particolare riferimento alla “Critica della ragion pratica” e alla “Critica del giudizio”, ove la celebre affermazione della centralità della morale, ben descritta in termini di legge morale dal filosofo con la celebre massima: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. In senso analogo si è mossa la centralità, nella cultura ottocentesca, soprattutto nel contesto del romanticismo tedesco, dell’autoerudizione e dell’autodidattica (Goethe), unitamente, nel contesto italiano, all’affermata centralità del ruolo degli insegnanti e del ruolo dei genitori quali formatori di vita e precettori, consacrata nel libro “Cuore” di De Amicis.
In senso analogo, la Costituzione italiana del 1948 stabilisce, all’art. 34, che “(comma 1) la scuola è aperta a tutti. (comma 2) L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. (comma 3) I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. (comma 4) La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”.
Così pure, l’art. 415 del codice civile, prevedendo la possibile inabilitazione per il sordo o il cieco fin dalla nascita o dalla prima infanzia che non abbiano ricevuto un’educazione sufficiente, parlando per l’appunto di “educazione” e non già meramente di “istruzione”, palesa come un’insufficiente educazione possa rappresentare un limite alla piena realizzazione della personalità giuridica e, più nello specifico, della capacità di agire. Ciò peraltro è assunto ben noto nella criminologia e nella dottrina penalistica, ove, come in tema di recidiva, di perdono giudiziale, di dosimetria sanzionatoria ex art. 133 c.p. e più in generale in relazione alla funzione della pena, si è detto che talora l’ambiente sociale e culturale in cui si è vissuti può rappresentare un terreno criminogeno, senza però al tempo stesso leggere tale assunto in prospettiva esclusivamente vittimologica, pena il concedere una generale esenzione dalla responsabilità penale, il che non può essere né è predicabile. Sulla seconda delle due direttive sopra delineate si sono mosse invece le grandi innovazioni giuridiche dell’ottocento e del novecento, come l’ideazione del Garatievetrag (contratto autonomo di garanzia) da parte del giurista Stammler, dell’affermazione, sviluppo e approfondimento della fideiussione e dell’assicurazione, non solo quali schemi contrattuali, ma anche quali “sistema”, al punto di arrivare all’affermazione delle compagnie di assicurazione e delle mutue assicuratrici e più in generale dell’affermazione, nella Germania di Bismarck, del moderno sistema previdenziale e assicurativo: si realizzano cioè forme di tutela nuove e organiche e si assiste alla creazione di un sistema di controlli ove certe autorità (enti nazionali come l’Inps o autorità amministrative indipendenti, come Agcom, Ivass e Banca d’Italia) si pongono a controllori, con tanto di poteri ispettivi e sanzionatori.
Sotto entrambi i profili, quello strettamente culturale e quello della tutela patrimoniale, il magistrato si pone sia quale garante in educando sia quale garante in vigilando, poiché egli deve sia educare attraverso la pena (funzione rieducativa della pena) sia vigilare sul rispetto delle leggi (arg. ex art. 111 Cost. e 112 Cost.).
Le due direttrici predette convergono allora nel portato concettuale, ermeneutico e applicativo di cui all’art. 1176 c.c., in tema di diligenza del buon padre di famiglia (comma 1) e del professionista (comma 2). La colpa in vigilando e in educando consegue allora alla violazione di una fondamentale norma di comportamento (cfr. SS.UU. Rordorf per un’enunciazione della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità), rappresentata appunto dalla regola della diligenza: di qui l’inadempimento di cui sopra si è detto: l’inadempimento a un dovere di natura solo in apparenza esclusivamente privatistica e munito invece di un portato etico e giuridico afferente certamente (anche) alla sfera pubblicistica. Quindi art. 1176 c.c. quale norma di diritto pubblico, al pari di altre norme di natura pubblicistica quali l’art. 40 comma 2, l’art. 2087 c.c. e l’art. 140 del Codice della strada. In tal senso, l’omissione descritta nello
schema del reato omissivo raffigura una forma di peccato, come si è detto nella patristica e nella teologia tradizionale, o comunque una forma di inadempimento, di negligenza, di noncuranza, di una “noluntas” (Schopenhauer), di una forma di lassissmo, di assenteismo, di legittimazione del non fare o del fare il minimo indispensabile (per afferire ai cronici mali della pubblica amministrazione italiana). Di qui la necessità della prospettiva del recupero.
Ma… quale il rimedio?
Probabilmente la riscoperta dell’etica, quale regola di comportamento e di relazione nei rapporti umani. La legge allora quale regola di comportamento, la legge quale fonte di educazione e insegnamento…e…di precetto.
Perché si parla di “precetto”, soprattutto con riferimento all’ambito penale?
Perché questo sostantivo si pone a riconoscimento e a consacrazione della funzione della legge, quella appunto di essere precettiva. Di qui le nobili e lodevoli dialettiche della legge morale (Kant) e della morale quale regola di condotta (S. Agostino, S. Tommaso D’Aquino). Quindi appunto, come detto, l’etica (Platone), unitamente al ruolo della filosofia (Platone) e della dialettica (Socrate, Hegel).
Il ruolo del magistrato deve dunque essere anche quello di educatore e di psicologo, ma non già nella prospettiva premiale-vittimologica, bensì in quella rieducativa, in relazione alla funzione rieducativa della pena, ma anche alla sua messa in discussione, a fronte di individui intrinsecamente malvagi – qui il tema diventa peraltro assai complesso e suggestivo, poiché, alla concezione tradizionale della teologia, secondo cui in tutti gli esseri umani residuerebbe comunque un barlume di bontà, ancorché ascoso, si contrappone l’idea calvinistica, ripresa da Padre Amorth, secondo cui tra gli esseri umani vi sarebbero individui intrinsecamente malvagi). E allora… le funzioni del magistrato, del perito (o del consulente tecnico d’ufficio nel processo civile) e dello psicologo, figura centrale che troppo poco viene richiamato dal codice di procedura penale (in una norma in tema di testimonianza del minorenne, e poco altro), sono complementari, poiché né è concepibile né predicabile la funzione del perito scissa da un sostrato etico che sempre deve essere tenuto a mente, al di là della giurisprudenza secondo cui comunque il perito non può spingersi in valutazione giuridiche, pena l’inammissibilità totale o parziale della perizia, né il magistrato può ragionare esclusivamente sulla base delle norme giuridiche senza tenere a mente il loro fondamento extragiuridico.
In effetti, molte norme del codice penale e del codice civile, se non forse tutte, risulterebbero incomprensibili senza comprenderne il postulato etico, sociale o economico che ne è a fondamento. In tal senso l’etica non può essere considerata come scissa e separata dalla psicologia e dal diritto, e viceversa. In tal senso, un’applicazione totalizzante del principio di frammentarietà, secondo il quale l’etica e il diritto devono viaggiare su binari separati e paralleli, tanto declamato dalla dottrina tradizionale (Fiandaca Musco ex multis), non è auspicabile. Il processo penale deve sempre allora rivestirsi di umanità, perché a essere giudicati sono esseri umani, vieppiù minorenni.
Il ruolo della comprensione di questi soggetti e della interpretazione dei loro impulsi psichici, dei loro moventi, della loro cioè introspezione psicologica, spetta appunto, in buona parte, alle valutazioni dello psicologo, che è chiamato alla collaborazione con il giudice per la realizzazione di una decisione il più giusta possibile, nel senso autentico della nozione di giustizia.
Ecco allora che nel 1988 è stato approntato un d.p.r., il numero 448, volto ad adeguare la struttura del processo penale alla figura dell’indagato, imputato o condannato minorenne, ove la primaria funzione del giudice e dello psicologo è di far comprendere al giovane il significato non solo giuridico ma anche sociale del fatto da egli commesso. All’art. 6 del decreto si pone in risalto come in ogni stato e grado del procedimento il magistrato sia costantemente chiamato ad avvalersi del ruolo dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi di assistenza istituiti presso gli enti locali, figure richiamate anche al comma 3 dell’art. 19. Quanto al minore persona offesa, poi, lo psicologo e il magistrato devono sempre evitare, questo in generale, che il minore venga traumatizzato per una seconda volta a causa della reminiscenza dei fatti che egli riferisce di aver subito, in sede processuale (c.d. vittimizzazione secondaria) e sempre deve esservi la massima accortezza nella formulazione delle domande, nell’adozione di misure apposite, come il vetro unidirezionale o la chiusura delle porte d’udienza, oltre alla scelta di un linguaggio accorto e delicato nella formulazione delle domande, affinché la testimonianza del minore sia il più genuina possibile da un lato e affinché lo stesso viva il processo, anche il processo penale, come un’esperienza certamente etica, ma non traumatica.