“Il coraggio delle cicatrici”

Il Dott. Gustavo Cioppa presenta il libro di Maria Luisa Iavarone

Una battaglia sociale. “Il coraggio delle cicatrici” è il racconto di un’esperienza tragica vissuta in prima persona da un ragazzo di nome Arturo che un giorno viene accoltellato da un branco di quattro minorenni, tanto da rischiare di perdere la vita. Ma è il racconto anche di una madre che vede il proprio figlio combattere contro la morte e vincere. Questo trauma diventa così l’occasione per una profonda riflessione da parte di Maria Luisa Iavarone, la madre di Arturo.Maria Luisa tenta di dare un senso alla vicenda che ha colpito la sua famiglia, cercando diapprofondire i motivi per cui un giovane possa commettere atti così gravi. Così si imbatte nello studio del determinismo ambientale, ossia il fatto che nascere in determinati contesti familiari possa essere fin dall’inizio una delle cause per cui un minore possa cominciare a delinquere, che unita a caratteri particolarmente aggressivi possa essere la scintilla per la commissione di un reato, spesso anche gravissimo.E Napoli è la città in cui la scena criminale si svolge, una città nella quale fin troppe voltenascere in una o altra famiglia può essere a seconda dei casi una fortuna o una condanna. Così la madre di Arturo si rende conto che, spesso, fermarsi ad una analisi meramente superficiale di una vicenda criminale sia controproducente, infatti se davanti a fatti così gravi, si hanno solamente esigenze vendicative, legate al dolore causato dall’offesa subita, non si cambierà mai la società. E qui si pongono le basi per citare la giustizia riparativa, ossia un nuovo modo di porsi davanti a chi commette un reato, ma anche a chi lo subisce, in considerazione del fatto che anche dietro ai reati più gravi, più terribili, e soprattutto più dolorosi da perdonare c’è sempre una Persona. E non solo la persona può cambiare, ma perdere la speranza verso un recupero di un minore significa distruggere la vita di una persona che ha tutta la propria vita davanti, che sconterebbe per il resto dei suoi anni le conseguenze negative di un fatto del passato, come se la Persona fosse il suo Reato. In questo caso i rei sono dei minori, soggetti per definizione vulnerabili, e che in quanto tali necessitano di un trattamento rieducativo differente rispetto a quello previsto per un adulto autore di reato.Maria Luisa capisce che ci vuole coraggio a perdonare, a ricominciare. Ma perdonare non significa dimenticare l’offesa subita, significa attribuire un nuovo vissuto ai fatti del passato, in chiave riparativo-riconciliativa. Solo così si dà un senso ad eventi tragici, nell’ottica di un recupero sociale, che va a vantaggio non solo del reo, ma soprattutto della società.Tuttavia per portare avanti la battaglia di Maria Luisa serve un’evoluzione culturale della società. È una battaglia difficile, perché abbattere i pregiudizi che plasmano i pensieri dei molti, oggi sembra quasi un’utopia.Ma la battaglia di questa madre è la battaglia di tutti, e per questo motivo ognuno di noi deve combattere.

Dott. Gustavo Cioppa

Già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/09/08/il-coraggio-delle-cicatrici/

Addio a Philippe Daverio: il ricordo del Dott. Gustavo Cioppa

“È morto un grande intellettuale, patrimonio dell’umanità”

Lascia un gran vuoto, incolmabile, la scomparsa di Philippe Daverio (il celebre storico dell’arte scomparso il 2 settembre all’età di 71 anni, ndr). È morto un grande intellettuale, patrimonio dell’umanità, che ci ha lasciato volumi di inestimabile bellezza e grazia. Le pagine di critica d’arte sulle grandi testate giornalistiche e i libri di storia dell’arte, animati da quella forza d’animo che appartiene a pochi, poiché la virtù del vero intellettuale consiste nel trasmettere cultura. Ma Daverio si spingeva ben oltre, appassionando i lettori, facendoli sognare.Non è stato solo un critico d’arte d’immensa levatura, ma un grande scrittore prestato alla critica. Alla stregua dei Longhi, dei Briganti, dei Berenson. Illustre accademico, fine saggista, ironico, prima di tutto uomo sensibile. Philippe Daverio raccontava l’arte ricreandola, senza retorica, solo per amore della bellezza, per quell’imprescindibile onestà intellettuale degli spiriti magni che è generosità. Dono innanzitutto. Dipingeva con le parole – ut pictura poesis – e il carattere che emerge sempre dai suoi scritti è la leggerezza, quell’armonico contrasto di malinconia e allegria. Il dipinto è lì, dinanzi agli occhi dei fruitori che finalmente riescono a vedere quello che il critico è riuscito a vedere e che, per un atto di generosità, comunica al pubblico. A Philippe Daverio la nostra incondizionata gratitudine per averci intrattenuti davanti all’arte svelandoci quel mistero che solo pochi critici illuminati – iniziati – riescono a cogliere e a decifrare.

Dott. Gustavo Cioppa

(già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

“Andiamoci piano con le teorie sulla decrescita economica”

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Il “de” privativo sembra dilagare senza freni: de-culturalizzazione; de-scolarizzazzione; de-strutturazione; de- etc.etc.; decrescita economica, alfine. È tutto un susseguirsi di “de”, cui neppure la più sfrenata delle fantasie riesce a tener dietro. E si potrà desistere (un “de” per una volta utile) dal considerare che una decrescita, culturale, sociale, economica equivalga, solo ed esclusivamente, a passi indietro? Quali acrobazie mentali e verbali potranno mai dimostrare che il ripiegare su posizioni ed assetti passati e, comunque, di livello più basso abbia i suoi profili di convenienza, specie “in oeconomicis”? Qui è davvero una “contradictio in adjecto”, giacchè la globalizzazione, ben nota al colto ed all’inclita”, è ontologicamente inconciliabile con forme di decrescita economica pianificate in un determinato (e limitato) contesto. Ammesso che una cotal decrescita fosse desiderabile (ma perchè?), essa sarebbe semplicemente irrealizzabile. Chi potrebbe ragionevolmente ipotizzare una “decrescita economica globale”? E chi una decrescita economica locale in un contesto di “crescita economica globale”? Non sembri supponenza, ma davvero non occorre neppure indugiar più che tanto sugli argomenti – tecnici, si dicere licet – addotti a favore di una “decrescita economica”, accettabile se non desiderabile. Eh sì, non occorre davvero: e non già per l’ossimorica valenza, ma proprio perchè si dovrebbe preliminarmente superare una serie di contraddizioni “in logicis”, che farebbero rivoltare nelle tombe, con tanti altri, Aristotele, Kant, Locke? Ma, quel che più conta, la realizzazione di questo sogno si tradurrebbe in un incubo per l’uomo della strada, vale a dire per colui che deve lavorare per mettere insieme il pranzo con la cena. Sarebbe una tragedia, insomma. Adagio, amici, con le tentazioni di teorie economiche bizzarramente novelle: adelante siempre (non detrás), pero con juicio, con tanto juicio. Altrimenti, si rischia di voler andare avanti indietreggiando: questo, sì, il modo migliore di subire quella che, in gergo militare, si chiama memorabile disfatta.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/08/27/andiamoci-piano-con-le-teorie-sulla-decrescita-economica/

La strada da seguire dopo la “lezione” del Covid-19

La riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

La Nemesi della storia ha colpito ancora e duramente. Il contagio – a volte letale – si è disteso su tutto il pianeta e va mietendo appieno, tuttora, vittime. Epperò, perché la Nemesi? Ebbene, perché mai come nell’ultimo mezzo secolo l’uomo tanto intensamente – si  vorrebbe dire “intensivamente” –  ha abusato, nel profondo, della terra. E, dopo lunga sopportazione, la natura,  col beneplacito di Baruch Spinoza, ha deciso di intervenire, nella duplice veste di “natura naturans” e “natura naturata”, mostrando al bipes humanus quanto le sia facile, nel batter d’un ciglio, farlo scomparire dal novero degli animali terrestri.

Odo già qualche lamento: “Non abbiamo alcuna prova scientifica che il dissesto (il disastro, melius) ambientale, a tutte le latitudini, abbia un ruolo cospicuo nel propagarsi della feroce epidemia diretta  “urbi et orbi”. Si potrebbe agevolmente replicare che, se non abbiamo la prova positiva, men che meno abbiamo quella negativa. Se non è dimostrato che c’entri, ancor meno è dimostrato che non c’entri. Orbene,  c’è qualcuno – magari un accigliato, ma garrulo frequentatore delle attuali “serate televisive” – che possa escludere, “juris et de jure”, una liaison, quanto meno in termini di – pur non dirimente, sia concesso –  concausa, un nesso fra il morbo ed il pianeta ecologicamente moribondo? Non c’è. E, se ci fosse, sarebbe l’ennesimo, disperato caso di scienziato (?) accecato dalla superbia. Epperò Dante colloca i superbi nelle arche infuocate dell’inferno. Ecco Farinata: “0 Tosco che per la città del foco/vivo t’en vai, così parlando onesto/piacciati di restare in esto loco/ La tua loquela ti fa manifesto/…”  Avremo noi la temerarietà di restare sordi alle innumeri reazioni delle natura – che passano inosservate – contro gli stupri quotidiani del geoambiente? Non potremo, non dovremo, non vorremo. E, dunque, viviamo la dimensione tragica del contagio non come una fatalità terribile, bensì come un quid di cui anche noi abbiamo colpa. E l’uomo può mai sopravvivere se si pone in contrasto, in lotta con la natura? No, non può. La crisi che sta devastando l’economia globale dovrebbe, deve condurci  ad una riflessione epocale. Va ripensata la logica del profitto. È certo che sia consustanziale all’essere umano: dunque, non può essere espunta. Può, nondimeno, essere profondamente mutata, “contaminata” in termini virtuosi, tali da non offendere né la natura e neppure un senso d”umanità palpitante”.

Priva di siffatte connotazioni, la cultura del profitto si risolve nell’immagine dell’ “homo homini lupus”, nè è un caso che Tommaso Hobbes fosse cospicuo intenditor d’economia, oltre che filosofo d’alto livello.

“Oportet, tandem, ut nos vivamus vitam novam”, adottando modalità di coesistenza “secundum naturam”. E il contagio globale, paradossalmente ma non troppo, può costituire occasione storica, giacché noi, anche se inconsapevolmente, stiamo cambiando “dentro”, mentre fuori il mondo è già cambiato: rispetto a quello preCovid, quanto “mutatus ab illo!!

I filosofi della scienza già parlano – et pour cause – di una rivoluzione culturale dietro l’angolo.  È così.

Le rivoluzioni, tuttavia, sono quasi sempre cruente. Ci sono, nondimeno, casi di rivoluzioni che, invece degli umani, massacrarono pregiudizi, falsi miti, idola fori, raggiungendo per tal via la distruzione di un mondo decrepito e degenerato: pensiamo alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, che avvenne per implosione “ab intrinseco”, talché le invasioni barbariche ne furono non già la causa,  bensì la conseguenza.

E altrettanto avvenne, mille anni dopo, all’Impero Romano d’Oriente o Impero Bizantino. Questa volta, però, il parto della storia avvenne sui cannoni (assoluta novità bellica: 1453) di Maometto II° il Conquistatore, che espugnò le plurime fila che costituivano il complesso di mura (impressionante) di Costantinopoli, invitte nel millennio precedente. Anche in questo caso, il Conquistatore raccolse le vestigia di un impero decadente e corroso dall’interno.

E noi? Noi dovremo riformare un sistema capitalista, che mostra la corda da tempo, dopo aver assistito alla deflagrazione ed alla inevitabile morte dei sistemi comunisti.

È impresa da far tremar le  vene e i polsi. I Keynesiani – non di rado con buona pace di John Maynard – hanno le loro ricette. E non manca chi si richiama ad Adamo Smith o ad Adorno, per offrire le proprie soluzioni prefabbricate.

Non è questa la strada. Non è la strada delle inflessibili leggi della economia, che ci porterà a salvamento in un mondo nuovo. L’economia – che non è una categoria aprioristica della ragione – andrà orientata e vissuta alla luce dell’imperativo categorico di Emanuele Kant (pur egli, come Hobbes, grande conoscitore delle scienze economiche, oltre che  sommo filosofo): “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.

Dott. Gustavo Cioppa 

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/08/09/la-strada-da-seguire-dopo-la-lezione-del-covid-19/

“Onore al merito degli insegnanti”

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare.
Andy Warhol

Dopo avere amaramente constatato il mancato silenzio, da molti auspicato nei mesi bui della pandemia, e per contro il proliferare della chiacchiera, della comunicazione distorta, sensazionalistica, terroristica, l’inutile clangore e frastuono, la consueta frenesia, l’approssimazione, la mancanza di direttive unitarie; dopo aver constatato la mancanza di attenzione, ossia di cura e amore verso il prossimo che alcuni comportamenti sulla soglia dell’imbecillità hanno rivelato, ci si domanda se sia possibile una svolta dell’umanità in meglio nell’era post-covid, che ci si augura prossima. Se tale svolta ci sarà, sicuramente un ruolo preponderante spetterà agli insegnanti di ogni ordine e grado, coloro che plasmano le giovani coscienze ed educano, formano, e non solo trasmettono cultura ma sensibilizzano. Poiché l’intelligenza è fatta anche di sensibilità. La comune radice antropologica non è solo algidamente intellettiva, ma anche e soprattutto sensibile. Credo che la mente non possa essere disgiunta dal cuore, uomini e donne non sono individui dimezzati. Lo è il “Visconte” – dimezzato – il personaggio creato da quel genio di Calvino per dire le nevrosi del Novecento, ereditate dal XXI secolo. Dimezzate sono, ahimè, molte famiglie, i cui figli trovano proprio nella scuola quel luogo che non è un parcheggio, ma una comunità di coetanei e insegnanti con cui trascorrere la maggior parte delle ore del giorno ci si augura in modo sereno. A scuola ogni bambino e ogni ragazzo impara a socializzare, evitando la deriva del solipsismo, incrementato da playstation, televisione e cellulari. A scuola esperisce il mondo e non solo nozioni. Il docente è innanzitutto una guida, un punto di riferimento e non un “pacchetto di servizi” offerti dalla scuola alla famiglia come i punti al supermercato o nei social. A scuola si impara, giorno per giorno, anno dopo anno, non solo un metodo di studio, ma anche l’autocontrollo, l’autodisciplina e l’esercizio dell’autocoscienza. Perché crescere vuol dire anche e soprattutto essere individui autonomi dal conformismo. Credo che un bravo insegnante non debba essere un capobranco – di branchi ce ne sono tanti fuori dalla scuola nella giungla della vita – certo dovrà essere una figura autorevole, ma non autoritaria. E nemmeno, credo, debba tenere al lazo gli studenti come un gaucho della Pampa argentina. La missione dell’insegnante non puó prescindere dalla passione della libertà, intesa come liberazione dal conformismo, così invasivo, compulsivo e nocivo invece nei social. Senza libertà interiore non può darsi felicità. Senza libertà interiore non si è soggetti. E si è soggetti solo quando si esercita la propria coscienza, nelle scelte, ad esempio, che ogni ragazzo è tenuto a fare già molto presto. Il più grande traguardo dell’uomo l’ha insegnato Socrate: “γνῶθι σαυτόν” (“Conosci te stesso”), la massima che avrebbe letto il filosofo greco sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, secondo Platone, assurta a imperativo della sua ricerca filosofica. La vita senza conoscenza non ha valore. La conoscenza non è l’utile, il conveniente, la chiacchiera, non avere dubbi. Tutt’altro. Un buon maestro non si stanca di educare alla criticità, al pensiero simbolico, l’unico in grado di generare empatia, miglior antidoto al pensiero unico. Un buon maestro, soprattutto, insinua il dubbio. Perché senza il dubbio la conoscenza non progredisce. Nel drammatico tempo della pandemia gli insegnanti di ogni ordine e grado hanno lavorato egregiamente senza risparmiarsi, evitando la deriva degli studenti, hanno incoraggiato e risollevato gli animi, hanno ascoltato e contenuto l’angoscia dei propri studenti. Non è stato facile. Ma gli insegnanti l’hanno fatto. Tuttavia, la DAD non è sufficiente, l’hanno ribadito docenti, psicologi e medici: si esperisce il mondo grazie al coinvolgimento di tutti e cinque i sensi. Mi auguro che a settembre gli studenti di tutto il mondo possano ritornare a vivere la scuola “in presenza”. Che ritornino quei gesti così umani e formativi: una stretta di mano, una pacca sulla spalla; gesti che nessuna faccina sullo smartphone potrà mai sostituire. Il virtuale non coincide con il reale. Ma si trattava di un’emergenza e gli insegnanti hanno dato il meglio di sé. Si dovrà evitare, soprattutto, che la popolazione scolastica – bambini e adolescenti – resti iperconnessa troppo a lungo. Gli esseri umani non sono macchine con fili cablati dentro una presa di corrente. Gli esseri umani non sono ancora replicanti o, forse, i migliori, gli spiriti evoluti, lo sono. Ma perché non ci slegano dalle loro corde maniacali, / (…) / Perché devono ignorare le nostre intime ragioni d’esistere / (…) non c’è alcun computer che possa aiutarli / e altra algebrica fascinazione elettronica, se non la coscienza. (Domenico Cara, Disputa di confine). E, ricordiamo, un buon docente non sarà mai né un tecnico né un tecnocrate. Se qualcuno insinua che il libro è morto, lo stesso la cultura tradizionalmente intesa, be’, tutto questo è smentito dalla fame di cultura e di libri. Mi è capitato di andare in un piccolo paese di montagna e di vedere una teca davanti a un negozio di generi alimentari contenente libri. Un cartello invitava gli utenti a cibarsi di nuovi libri, offrendone di propri. “Non di solo pane vive l’uomo.” (Matteo, 4,4). Il vero baluardo è solo il conoscere, contro l’inerzia e l’indifferenza, solo l’amore, l’avere cura, il prendersi cura e non il depauperamento del pianeta, speculare a quello della coscienza. Come brillano i versi dell’ultimo poeta che, ricordiamolo, prima di essere un grande artista è stato un educatore, un insegnante: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / l’aver conosciuto. Dà / angoscia // il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più.” (Pier Paolo Pasolini, Il canto della scavatrice). Negli ultimi decenni la scuola è stata la cenerentola della società, con livelli di disorganizzazione sempre più drammatici, e non certo per colpa del corpo docente. L’emergenza da pandemia credo sia anche un’occasione per ripensare efficacemente il ruolo della scuola nell’attuale società. Secondo alcune menti illuminate, fra cui il cardinale Bassetti (presidente della Conferenza episcopale italiana) saremmo “il fanalino di coda dell’Europa nella retribuzione degli insegnanti.” Ecco, mi auguro che ci sia una “ripresa” anche e soprattutto della scuola, del ruolo fondante rivestito dall’istituzione scolastica, fiore all’occhiello di un Paese civile.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/07/19/onore-al-merito-degli-insegnanti/

Gustavo Cioppa ricorda Ennio Morricone: “Un grande italiano nel mondo”

“Ha fatto sognare tutti con le sue Musiche meravigliose”

cioppa e morricone

“Un pensiero all’uomo che ha fatto sognare tutti con le sue Musiche meravigliose, un grande italiano nel mondo. Ennio Morricone”. Lo scrive su Linkedin Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia (nella foto un incontro tra Gustavo Cioppa ed Ennio Morricone, ndr)”. 

(Adnkronos)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/07/06/gustavo-cioppa-ricorda-ennio-moricone-un-grande-italiano-nel-mondo/

La persona al centro della nostra Costituzione

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia  

E’ soprattutto nei periodi di difficoltà che emergono i valori fondamentali che caratterizzano il modo di essere del sistema-Paese e il loro incidere sui comportamenti del corpo sociale complessivamente considerato. Durante le difficoltà create dal Covid-19 abbiamo potuto sentire con frequenza non proprio abituale invocare importanti valori espressi dalla nostra Carta costituzionale, quasi a cercare un ancoraggio, un conforto o anche semplicemente un riferimento. E la nostra Carta certamente contiene valori destinati ad ispirare la nostra vita di relazione e il rapporto con le istituzioni chiamate a dare applicazione e quindi concretezza a quei valori.

Maturata durante e all’alba di una parentesi storica finita nella tragedia della Seconda guerra mondiale, la comune volontà della grande maggioranza del popolo italiano ha inteso creare le condizioni per non ripeterne gli errori all’interno del Paese e per una pace duratura nelle relazioni esterne. L’Assemblea costituente ebbe il compito di tradurre quella volontà in uno strumento giuridico che ne scolpisse termini essenziali duraturi e soprattutto condivisi. Dalla dialettica che si sviluppò nell’Assemblea, politica anche per il contributo della parte significativa di tecnici, nacquero i frutti migliori che ancora si colgono nella nostra legge fondamentale, base e cemento della nostra democrazia. E il risultato più rilevante realizzato fu dato dalla sinergia sulla condivisione degli obiettivi, tra le tre forze politiche e intellettuali anche molto distanti: la cattolica, la socialista, la liberale. Ognuna di queste componenti offrì un contributo decisivo alla buona riuscita dei lavori, anche sacrificando in parte alcuni punti fermi delle rispettive posizioni politiche e ideologiche pur di realizzare una seria discontinuità rispetto al passato, a conferma che il costruire insieme almeno i principi fondamentali dell’assetto di un Paese non ha alternative ragionevoli. Tale sinergia vale di sicuro a comprendere anche la costante relazione della Costituzione con il concreto sviluppo del Paese, sì da consentire di interpretare al giusto la volontà e le esigenze del corpo sociale. La Costituzione è infatti non è uno strumento statico ma dinamico, un pezzo di carta da far vivere giorno per giorno, come uno spartito musicale, sì da misurare la sua efficacia sulle esigenze che il Paese fa progressivamente emergere e di cui reclama la soddisfazione. Non di questa o quella componente politico-sociale, anche prevalente, ma del Paese nelle sue diverse componenti sociali.

I principali tratti del disegno costituzionale

Vediamo, dunque, almeno i principali tratti di questo disegno, varato il 22 dicembre 1947, non a caso precisati soprattutto in termini generali nel capitolo iniziale della Carta dedicato ai Principi Fondamentali.

Anzitutto si afferma il principio democratico, secondo il quale la sovranità appartiene al popolo. A questo principio viene ancorata la forma di governo, l’attribuzione delle competenze normative, la divisione dei poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario. Di rilievo è, sulla premessa pur sempre della unità e indivisibilità della Repubblica, la previsione dell’articolazione territoriale delle competenze, con diversa intensità tra Regioni a statuto speciale e Regioni a statuto ordinario. Emerge la rilevanza attribuita alla partecipazione più diretta delle comunità territoriali all’esercizio del potere di governo del Paese, aspetto non certo secondario di un sistema democratico.

Trovano una collocazione significativa i diritti fondamentali della persona, sia come singolo che nelle formazioni sociali, il rispetto della dignità dell’uomo che ne è la principale espressione, senza alcuna differenza quanto a sesso, razza, religione, censo o opinioni politiche, in breve della persona in quanto tale. E non manca il diritto al lavoro e l’onere dello Stato di promuovere le condizioni che ne rendano effettivo l’esercizio e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica. Del pari importante é il riconoscimento dell’indipendenza e della sovranità della Chiesa Cattolica e l’attenzione a tutte le altre confessioni religiose. E certo non manca di significato un valore spesso trascurato proprio nei momenti di difficoltà che ne richiedono soprattutto il rispetto: l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. In breve, emerge la centralità dell’uomo, come spesso usavano ricordare i politici dell’epoca.

Né poteva mancare un chiaro riferimento allo sviluppo della cultura e della ricerca, così come all’ambiente e al patrimonio storico e artistico. E del pari all’apertura del nostro Paese alla vita di relazioni internazionali, con l’impegno significativo di conformare il nostro ordinamento giuridico alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, compreso l’impegno a riconoscere allo straniero il diritto di asilo e in generale il trattamento dovuto in base ai trattati internazionali. Di definitivo rilievo è il ripudio della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali e il consenso a limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri pace e giustizia (leggi: Nazioni Unite e Unione Europea).

L’insegnamento per il futuro del Paese

Questo è dunque il quadro dei principali valori che la nostra Carta costituzionale ha enunciato, insieme a tanti altri che ne segnano specificamente l’applicazione e il completamento. Penso alla rigidità della Costituzione, modificabile solo con procedura solenne,  all’eguaglianza in base a tutti i parametri  imposti da un ragionevole livello di civiltà giuridica, al limite sociale del diritto di proprietà, alla libertà di manifestazione del pensiero, all’indipendenza del giudice rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo, al principio di legalità e della tutela giurisdizionale effettiva, alla libertà di impresa, alla libertà d’insegnamento, alle libertà sindacali, al ruolo assolutamente prevalente del Parlamento nei processi normativi, alla Corte costituzionale.

Non è poco ed è ciò che fa della nostra Carta Costituzionale certamente tra le più efficaci e democratiche anche rispetto a sistemi di ben più antica democrazia. Ed è il risultato, vale la pena ripeterlo, in una sinergia costruttiva tra forze politiche e ideologiche molto diverse, che in Assemblea riuscirono a trovare quel necessario punto di sintesi al quale il contesto attuale non riesce neppure ad avvicinarsi.

Il sistema è poi completato da una rete di garanzie e di pesi e contrappesi, che conferma l’idea dell’esigenza che il contributo al rafforzamento dell’assetto democratico sia di tutte le forze e di ciascuna, secondo il modello dell’Assemblea Costituente. Questo è il disegno costituzionale costruito da tutti. Ed è anche l’insegnamento per l’evoluzione futura del Paese.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/06/23/la-persona-al-centro-della-nostra-costituzione/

La forma del silenzio

La riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Detesti proprio essere toccato dalla gente.

Mi ricordo la prima volta che ti ho incontrato,

ti avevo urtato e tu avevi fatto un salto di due metri.

Ma perché? Paura dei germi?”

“No. Paura di essere aggredito.”

Andy Warhol

Un giorno accadde. Tutto era sospeso. E sembrò di essere entrati in un quadro di de Chirico. Le strade, le piazze erano vuote, invase da uno strano silenzio assordante. Era scoppiata la pandemia, una guerra batteriologica,… ma perché,… e voluta da chi?… Qualcuno frugò in quel mistero cosmico e vide nel silenzio l’unica chiave di svolta. Ma è difficile il silenzio. Per alcuni è un’esperienza insostenibile. Eppure è così bello, il silenzio. Ma la bellezza, mette in guardia il poeta, non è altro / che l’inizio del tremendo, che appena riusciamo / a sopportare (…). (Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, I).

Si vorrebbe ridere – per salvarsi la vita, un po’ di sana ironia, meglio ancora se autoironia – invece il riso non viene per il numero dei morti. Davanti agli occhi l’interminabile fila di bare fa ammutolire, anche il pianto stenta a venire, sopraffatto dalla paura. Si vorrebbe ridere, cantare, pregare, per rompere il silenzio. Il silenzio fa paura. Non appena ci si disconnette da quelle protesi che sono il computer, il tablet, l’iphone, la mente va al virus, e sopraggiunge l’angoscia, di cui ci si sente succubi. Ci si sente raggelare, pietrificare, senza scampo, ed è panico. Quanto al riso, si constata, purtroppo, che prevale lo sghignazzo. E nei social proliferano, ancora, video virali. Chi li ha realizzati, lanciandoli nell’universo della rete, non ha capito che il virus è ancora qui, sul pianeta Terra, e spetta a lui quest’aggettivo. Per scongiurare la paura meglio telefonare, mandare messaggini corredati dai video del momento, più che altro immagini idilliche con tanto di musica rasserenante, o anche barzellette, qualcosa cui il popolo dei social è abituato, qualcosa che non faccia pensare, con un salutare effetto anestetizzante delle coscienze, tanto per distrarsi un po’. Pensare fa stare male, causa la depressione.

Qualcuno avrebbe voluto pregare, ma le chiese a lungo sono rimaste chiuse. Un’eccezionalità che ha segnato profondamente gli animi ed è rimasta nell’immaginario collettivo lasciando un’amarezza sconosciuta. La pandemia ha distrutto la pietà, impedendo i funerali. Non era mai accaduto. Che si sia così compiuta, grazie alla pandemia, quella richiesta di Gesù che suona brutale: Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti? (Matteo, 8,21-22). Certo che no. Per motivi di Salute pubblica, tra le varie ‘sospensioni’ ci fu anche quella dei funerali. Si dovette imparare a piangere i propri morti da lontano.

Cosa ci differenzia dagli animali? Il riso e il seppellimento dei morti. Il senso dell’umorismo, proibito solamente nei lager, e il senso del sacro da cui sono scaturite le religioni. Molto prima dell’avvento del cristianesimo, i popoli dell’area mediterranea cominciarono a seppellire i morti. Il senso della pietà salvaguardò gli uomini dalla ferocia facendoli progredire nella scala dell’evoluzione.

C’è un quadro, in realtà una serie, di de Chirico, che ci porta in un luogo lontano nello spazio e nel tempo, e che potrebbe simboleggiare questo tempo di crisi, in cui anche la pietà è rimasta ‘sospesa’. Nel quadro si vede una torre la cui cima si perde nell’azzurro. In luoghi deserti s’innalzavano torri sulla cui sommità venivano esposti i cadaveri. Inaccessibili a chiunque; solo i becchini vi stazionavano il tempo di adagiare le salme su una piattaforma, poi abbandonavano la torre. La terra era sacra, non poteva essere contaminata dal corpo in putrefazione. Nella valle risuonavano grida selvagge. Nel blu altissimo una nuvola nera proiettava la propria ombra sulla sabbia. Frotte di avvoltoi e uccelli rapaci planavano sulla torre. Ne arrivavano a migliaia, richiamati dall’odore della carne, per gettarsi sul cadavere di cui sarebbero rimaste solo le ossa. L’alacre lavorio dei becchini dell’aria si compiva in un breve lasso di tempo; dopo il festino avrebbero lasciato la valle su cui sarebbe calato il silenzio. Grazie alle creature dell’aria terra e acqua restavano intatte.

Ma probabilmente, prima dell’accadimento di quel rito feroce, le onoranze funebri venivano celebrate, affinché i famigliari e tutti coloro che avevano amato la persona scomparsa potessero compiangerla e condividere il lutto con i sopravvissuti.
Nella fase uno, pregare e cantare lo si è fatto ciascuno nelle proprie abitazioni, grazie ai mezzi multimediali che hanno permesso i collegamenti. Allora si è visto un uomo vestito di bianco camminare solo, il passo incerto e stanco in una piazza San Pietro deserta, e perciò spettrale. Tutto era surreale, a cominciare dalla piazza, vasta e smisurata. Non finiva mai quel faticoso attraversamento, sotto una fitta pioggia fina. L’impiantito lucido rifletteva le statue, l’obelisco, ogni cosa nell’ora blu, e quel puntino bianco, mobile, vivo. Poi il Papa, sempre più curvo nell’ascesa al sagrato della basilica di San Pietro, si è arrestato e, davanti al Crocifisso, ha pregato. A lungo ha pregato. Era il 27 marzo 2020. Le “lacrime del cielo” rigavano il corpo di dolore del Cristo, quel Crocifisso quattrocentesco già portato in processione dai romani nei secoli passati per scongiurare la peste. Nel silenzio, l’urlo della sirena di un’ambulanza si mescolava ai rintocchi delle campane. Il Santo Padre era lì per tutti noi, il volto sofferente, madido di pioggia, la sua preghiera non faceva distinzioni. All’interno della Basilica di San Pietro, a lungo il Papa ha innalzato l’Ostensorio rivolgendolo ai quattro punti cardinali della Terra nella solenne Benedizione Urbi et Orbi. Un monito di pace e speranza, per sanare le ferite e rincuorare gli afflitti, per impedire al vuoto e alla disperazione di toglierci tutto.

Papa Francesco tocca sempre le corde del cuore con la grazia potente di due semplici parole: dono e perdono. È il paradosso dell’Amore, ogni volta, il segreto della felicità anche nella tristezza. E nell’omelia del 27 marzo 2020, Bergoglio ha esortato i fedeli “ad avere il coraggio di tacere nel silenzio davanti a Dio”.

Il virus ci ha tolto la pace dell’anima, il senso del sacro e della pietà, inchiodandoci a una paura subdola, la stessa che emana da ogni tirannia e totalitarismo. L’eccezionalità del distanziamento sociale – speriamo non divenga una norma – ha reso le piazze del tutto simili a quelle dei quadri di de Chirico, in cui si aggirano minuscole figure solitarie. Per contro risaltano gli edifici, che paiono giganteschi. Spesso, in luogo della figura umana, troviamo dei manichini, ossia degli esseri privi d’identità. Come quei quadri sembrano prefigurare la realtà surreale di oggi. I nostri volti, imbavagliati dalla mascherina, hanno perso i tratti somatici, quell’individualità che è cifra di ogni identità. Talvolta, così mascherati, i volti non sembrano neanche volti, e stentiamo a riconoscerci. Gli artisti sono profeti, o, forse, la storia non progredisce affatto. Che non sia una linea, il Tempo, bensì un ciclo? Parafrasando Vico, si potrebbe dire che l’umanità non può che incontrare nelle sue peregrinazioni, da alcuni scambiate per evoluzione, “corsi e ricorsi storici”. Temo che pochi siano riusciti a connettersi con l’alieno e temuto Covid, e carpirne i messaggi.

In realtà non c’è stato alcun silenzio, ma chiacchiericcio: dalla pletora dei diktat degli yes man corrosivi, stupidamente competitivi e nocivi, alle fake news dei social, ai dibattiti in tivù, all’invasione di sms e video musicali sugli smartphone, video lezioni e video conferenze al computer, video virali. Voci e ancora voci, metalliche, virtuali.

Nessun silenzio. Solo chiasso. Confusione.
Nessun raccoglimento nell’umile terra dell’interiorità, cui connettersi risulta arduo. Il silenzio fa paura. Si è preda della vertigine, come davanti alla visione dell’azzurro di un cielo rarefatto colto da altitudini sovraumane. Per chi non riesca a guardare il Cielo, almeno guardi le nuvole. Ed ecco un ponte di barche appeso alle nuvole su un monte. Bianche cortine lo avvolgono in quell’ora fantastica che è la sera, prima che spunti la luna, e il monte è tutto blu. Due funamboli su un esile ponte avanzano, o forse danzano. Il ponte si piega come una fune. Quei due sono proprio uccelli persi nell’azzurro. Su un altro monte, di fianco al monte blu, pascolano cervi e nella neve germogliano i primi fiori di primavera.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/06/02/la-forma-del-silenzio/

Pensare una nuova Vita insieme dopo il Covid-19

La riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Dopo aver compreso che Homo Sapiens Sapiens è tale in quanto animale pensante, qualcuno si chiede: ma vi è stato realmente il tempo per riflettere durante questi lunghi mesi di quarantena? O hanno prevalso cattive abitudini, oramai croniche nell’imperio dei social?
Per alcune categorie il tempo del lavoro nella quarantena si è raddoppiato – pensiamo ai disagi della didattica a distanza – e ve ne sarebbero altre, di categorie di lavoratori, i quali, tuttavia, in nome del dovere civico hanno dato il meglio di sé, scoprendosi eroi inconsapevoli, e senza nemmeno ricevere un grazie. Il lavoro smart è piombato dall’alto come un dovere imprescindibile.
Vi è poi l’amara questione dei lavoratori i quali, ahimè, si sono trovati a disporre di tanto tempo per pensare poiché hanno perduto la propria occupazione.
È il dramma della crisi economica innescata dalla crisi epidemica.
La certezza nella scienza e nella tecno-scienza è deflagrata. Gli uomini non sono i padroni della Terra. È bastato un banale virus ad arrestare il processo di globalizzazione che si pensava fino a prima di Covid-19 inarrestabile.
Per contro il virus è stato lui ‘globale’ in tutti i sensi, e virale. Ma un microscopico virus che altro può essere se non virale? Il mondo è divenuto epidemico. Già altre volte è accaduto, ma ora l’eccezionalità è senza paragoni. Il rischio di contagio è ancora globale e invisibile, almeno fino alla creazione di un vaccino.
Adesso, oltre al vuoto, si fa strada, mai estinta, l’immaginazione: pensare una nuova vita insieme.
Immaginare la Vita, perché il punto non è sopravvivere, ma vivere, e la vita umana non è mai disgiunta dalla dimensione politica, economica e sociale. L’uomo, proprio in quanto animale sociale, è anche un animale politico. Premesso che la vita senza felicità non è vita, quale sarà l’impegno reale dei politici quando si saluterà finalmente l’uscita di scena di Covid-19?
Per la costituzione americana l’uomo ha diritto alla felicità.
Non si conosce chi per primo, fra i costituenti americani, abbia avuto  la brillante quanto temeraria intuizione.
Ma che cosa è la felicità? Quasi tutti i grandi filosofi l’hanno cercata, ma nessuno ha potuto declinarne chiaramente l’ “in sé”.
Quaesiverunt ac non invenerunt: forse perché, semplicemente, la felicità non esiste o, almeno, non esiste per come noi siamo portati ad immaginarla,  senza, tuttavia, saperla neppure definire. Proviamo, allora, col procedere “a contrario” e col rinunciare ad una ricerca e definizione ontologicamente universale.
Cos’è l’infelicità per l’uomo nei tempi che viviamo? L’infelicità oggi è la presenza del contagio, della pandemia. E la felicità è la sua assenza.
Certo, una felicità temporanea, contingente, relativa, passeggera e, per di più, da conquistare e saper gestire: la felicità del domani, del dopodomani e nulla di più.
Quando l’avremo raggiunta, dopo un po’, non conterà più, quale categoria aprioristica dell’essere e del pensiero.
Nondimeno, dovremo contentarcene e riprendere il cammino: magari ripensando alla folgorante immagine di Pascal, che vede l’umanità correre  allegramente verso il precipizio, dopo essersi posta davanti qualche cosa che ne impedisca la vista.
Ecco una riflessione che può venir buona in questi tempi: almeno stiamo in guardia per  non correre verso il precipizio con la velocità cui siamo adusi.
Ricordiamoci di quella breve frase in latino,  che era impressa negli anni ’70 su molti libri di scuola, come invito agli studenti, un ossimoro che può guidarci: festina lente,  affrettati lentamente.
Ma forse oggi è più comprensibile ed attuale la stessa indicazione data in inglese con la locuzione hurry but slowly.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/05/21/pensare-una-nuova-vita-insieme-dopo-il-covid-19/

“Il virus della paura”: interviene Gustavo Cioppa

La riflessione del magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Senza informazione si crea il panico, la troppa informazione crea confusione. Quale giusto equilibrio?
Questa è la domanda che ci attanaglia da quando abbiamo capito che l’Italia era vulnerabile come la Cina e come tutte le Nazioni di questo pianeta e che anche noi saremmo stati colpiti da questa “Idra” che conosciamo di giorno in giorno.
Parlare del virus per esorcizzarne la paura. Tutti i giorni assistiamo ad interviste, inermi davanti a pareri discordanti: chi dice state in casa, chi dice che il virus fa come gli pare, chi ancora ci invita a riprendere la nostra esistenza, per ridare vita a città sempre più fantasma, chi paragona il virus ad una normale influenza.
La nostra verità è quella che ci vogliamo dare, la stessa, che consente di vivere un quotidiano che non ci soffochi di angosce.
La rielaborazione del fatto dettato dall’esperienza personale e dalla soggettività che ognuno di noi ha, non è più un parametro di vita. L’unico e vero parametro dovrebbe essere la scienza, che ad oggi, sia pure con difficolta, si impegna ad arginare l’evoluzione del virus.

Ancora una volta noi cerchiamo di credere in quello che ci dicono, perché non vogliamo perdere del tutto la fiducia: “ci fidiamo” oggi in un momento storico, dove la fiducia è disattesa da tutte le parti, l’incertezza dilaga, e sono più le domande  delle risposte .
Perché in un mondo come il nostro si smette di studiare e sperimentare, perché i famosi fondi alla ricerca vengono periodicamente tagliati senza pensare che in tal modo si colpisce uno degli elementi essenziali della nostra civiltà, compromettendo il nostro futuro?
Non ho una risposta a tutte queste domande, ho solo la speranza che dopo questa profonda crisi diversa da tutte le altre, raccontate in letteratura, si riscoprano valori e si impari a far diventare l’imprevedibile, prevedibile.
Il trinomio epidemia, contagio e quarantena è indice di cambiamento e ha modificato la storia e l’economia sin dal dal 1300 con la peste nera che devastò l’Europa.         

Da Boccaccio a Manzoni si narrano morte e disfacimento delle abitudini e dei costumi, anche allora la critica alle autorità incapaci di prendere misure efficaci. Il bisogno di trovare un colpevole, la paura del contagio che ha rievocato in molti di noi il disvalore delle divisioni, la paura dell’untore.
I muri territoriali e sociali che speravamo essere crollati con le globalizzazioni sono quanto mai di moda.

La nostra cultura e il nostro ingegno sono ormai secondari alla paura. Non sapremo quando e come, ma dalle ceneri come una fenice dovremo rinascere, avendo fatto tesoro dei nostri errori sulla gestione  della comunicazione. Per l’ennesima volta, uno spettro aleggia sopra gli umani, proiettando ai loro occhi orizzonti sinistri. Occorre, allora, ricorrere ad  una lente speciale per evitare visioni fuorvianti e portatrici di suggestioni: la lente della ragione. Tutte le cose e le vicende umane hanno un inizio ed una fine. Così, la terribile esperienza del virus, che si è abbattuto su di noi, è destinata a concludersi in una dinamica scandita dall’alfa fino all’omega: a ciascuno il compito di far in modo che siffatta declinazione sia rapida e priva di errori.

Forse per ora c’è una paroletta magica che gioverebbe a tutti. La parola virtuosa è “sobrietà “da parte di tutti: degli scienziati (chiamati a darci lumi), dei politici e di noi tutti, cittadini di un mondo che si de-globalizza e, contemporaneamente, deve affrontare una pandemia globale. La sobrietà sarà  l’antidoto al panico ed all’euforia e ci renderà più forti ed uniti.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/05/16/il-virus-della-paura-interviene-gustavo-cioppa/