La forma del silenzio

La riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Detesti proprio essere toccato dalla gente.

Mi ricordo la prima volta che ti ho incontrato,

ti avevo urtato e tu avevi fatto un salto di due metri.

Ma perché? Paura dei germi?”

“No. Paura di essere aggredito.”

Andy Warhol

Un giorno accadde. Tutto era sospeso. E sembrò di essere entrati in un quadro di de Chirico. Le strade, le piazze erano vuote, invase da uno strano silenzio assordante. Era scoppiata la pandemia, una guerra batteriologica,… ma perché,… e voluta da chi?… Qualcuno frugò in quel mistero cosmico e vide nel silenzio l’unica chiave di svolta. Ma è difficile il silenzio. Per alcuni è un’esperienza insostenibile. Eppure è così bello, il silenzio. Ma la bellezza, mette in guardia il poeta, non è altro / che l’inizio del tremendo, che appena riusciamo / a sopportare (…). (Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, I).

Si vorrebbe ridere – per salvarsi la vita, un po’ di sana ironia, meglio ancora se autoironia – invece il riso non viene per il numero dei morti. Davanti agli occhi l’interminabile fila di bare fa ammutolire, anche il pianto stenta a venire, sopraffatto dalla paura. Si vorrebbe ridere, cantare, pregare, per rompere il silenzio. Il silenzio fa paura. Non appena ci si disconnette da quelle protesi che sono il computer, il tablet, l’iphone, la mente va al virus, e sopraggiunge l’angoscia, di cui ci si sente succubi. Ci si sente raggelare, pietrificare, senza scampo, ed è panico. Quanto al riso, si constata, purtroppo, che prevale lo sghignazzo. E nei social proliferano, ancora, video virali. Chi li ha realizzati, lanciandoli nell’universo della rete, non ha capito che il virus è ancora qui, sul pianeta Terra, e spetta a lui quest’aggettivo. Per scongiurare la paura meglio telefonare, mandare messaggini corredati dai video del momento, più che altro immagini idilliche con tanto di musica rasserenante, o anche barzellette, qualcosa cui il popolo dei social è abituato, qualcosa che non faccia pensare, con un salutare effetto anestetizzante delle coscienze, tanto per distrarsi un po’. Pensare fa stare male, causa la depressione.

Qualcuno avrebbe voluto pregare, ma le chiese a lungo sono rimaste chiuse. Un’eccezionalità che ha segnato profondamente gli animi ed è rimasta nell’immaginario collettivo lasciando un’amarezza sconosciuta. La pandemia ha distrutto la pietà, impedendo i funerali. Non era mai accaduto. Che si sia così compiuta, grazie alla pandemia, quella richiesta di Gesù che suona brutale: Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti? (Matteo, 8,21-22). Certo che no. Per motivi di Salute pubblica, tra le varie ‘sospensioni’ ci fu anche quella dei funerali. Si dovette imparare a piangere i propri morti da lontano.

Cosa ci differenzia dagli animali? Il riso e il seppellimento dei morti. Il senso dell’umorismo, proibito solamente nei lager, e il senso del sacro da cui sono scaturite le religioni. Molto prima dell’avvento del cristianesimo, i popoli dell’area mediterranea cominciarono a seppellire i morti. Il senso della pietà salvaguardò gli uomini dalla ferocia facendoli progredire nella scala dell’evoluzione.

C’è un quadro, in realtà una serie, di de Chirico, che ci porta in un luogo lontano nello spazio e nel tempo, e che potrebbe simboleggiare questo tempo di crisi, in cui anche la pietà è rimasta ‘sospesa’. Nel quadro si vede una torre la cui cima si perde nell’azzurro. In luoghi deserti s’innalzavano torri sulla cui sommità venivano esposti i cadaveri. Inaccessibili a chiunque; solo i becchini vi stazionavano il tempo di adagiare le salme su una piattaforma, poi abbandonavano la torre. La terra era sacra, non poteva essere contaminata dal corpo in putrefazione. Nella valle risuonavano grida selvagge. Nel blu altissimo una nuvola nera proiettava la propria ombra sulla sabbia. Frotte di avvoltoi e uccelli rapaci planavano sulla torre. Ne arrivavano a migliaia, richiamati dall’odore della carne, per gettarsi sul cadavere di cui sarebbero rimaste solo le ossa. L’alacre lavorio dei becchini dell’aria si compiva in un breve lasso di tempo; dopo il festino avrebbero lasciato la valle su cui sarebbe calato il silenzio. Grazie alle creature dell’aria terra e acqua restavano intatte.

Ma probabilmente, prima dell’accadimento di quel rito feroce, le onoranze funebri venivano celebrate, affinché i famigliari e tutti coloro che avevano amato la persona scomparsa potessero compiangerla e condividere il lutto con i sopravvissuti.
Nella fase uno, pregare e cantare lo si è fatto ciascuno nelle proprie abitazioni, grazie ai mezzi multimediali che hanno permesso i collegamenti. Allora si è visto un uomo vestito di bianco camminare solo, il passo incerto e stanco in una piazza San Pietro deserta, e perciò spettrale. Tutto era surreale, a cominciare dalla piazza, vasta e smisurata. Non finiva mai quel faticoso attraversamento, sotto una fitta pioggia fina. L’impiantito lucido rifletteva le statue, l’obelisco, ogni cosa nell’ora blu, e quel puntino bianco, mobile, vivo. Poi il Papa, sempre più curvo nell’ascesa al sagrato della basilica di San Pietro, si è arrestato e, davanti al Crocifisso, ha pregato. A lungo ha pregato. Era il 27 marzo 2020. Le “lacrime del cielo” rigavano il corpo di dolore del Cristo, quel Crocifisso quattrocentesco già portato in processione dai romani nei secoli passati per scongiurare la peste. Nel silenzio, l’urlo della sirena di un’ambulanza si mescolava ai rintocchi delle campane. Il Santo Padre era lì per tutti noi, il volto sofferente, madido di pioggia, la sua preghiera non faceva distinzioni. All’interno della Basilica di San Pietro, a lungo il Papa ha innalzato l’Ostensorio rivolgendolo ai quattro punti cardinali della Terra nella solenne Benedizione Urbi et Orbi. Un monito di pace e speranza, per sanare le ferite e rincuorare gli afflitti, per impedire al vuoto e alla disperazione di toglierci tutto.

Papa Francesco tocca sempre le corde del cuore con la grazia potente di due semplici parole: dono e perdono. È il paradosso dell’Amore, ogni volta, il segreto della felicità anche nella tristezza. E nell’omelia del 27 marzo 2020, Bergoglio ha esortato i fedeli “ad avere il coraggio di tacere nel silenzio davanti a Dio”.

Il virus ci ha tolto la pace dell’anima, il senso del sacro e della pietà, inchiodandoci a una paura subdola, la stessa che emana da ogni tirannia e totalitarismo. L’eccezionalità del distanziamento sociale – speriamo non divenga una norma – ha reso le piazze del tutto simili a quelle dei quadri di de Chirico, in cui si aggirano minuscole figure solitarie. Per contro risaltano gli edifici, che paiono giganteschi. Spesso, in luogo della figura umana, troviamo dei manichini, ossia degli esseri privi d’identità. Come quei quadri sembrano prefigurare la realtà surreale di oggi. I nostri volti, imbavagliati dalla mascherina, hanno perso i tratti somatici, quell’individualità che è cifra di ogni identità. Talvolta, così mascherati, i volti non sembrano neanche volti, e stentiamo a riconoscerci. Gli artisti sono profeti, o, forse, la storia non progredisce affatto. Che non sia una linea, il Tempo, bensì un ciclo? Parafrasando Vico, si potrebbe dire che l’umanità non può che incontrare nelle sue peregrinazioni, da alcuni scambiate per evoluzione, “corsi e ricorsi storici”. Temo che pochi siano riusciti a connettersi con l’alieno e temuto Covid, e carpirne i messaggi.

In realtà non c’è stato alcun silenzio, ma chiacchiericcio: dalla pletora dei diktat degli yes man corrosivi, stupidamente competitivi e nocivi, alle fake news dei social, ai dibattiti in tivù, all’invasione di sms e video musicali sugli smartphone, video lezioni e video conferenze al computer, video virali. Voci e ancora voci, metalliche, virtuali.

Nessun silenzio. Solo chiasso. Confusione.
Nessun raccoglimento nell’umile terra dell’interiorità, cui connettersi risulta arduo. Il silenzio fa paura. Si è preda della vertigine, come davanti alla visione dell’azzurro di un cielo rarefatto colto da altitudini sovraumane. Per chi non riesca a guardare il Cielo, almeno guardi le nuvole. Ed ecco un ponte di barche appeso alle nuvole su un monte. Bianche cortine lo avvolgono in quell’ora fantastica che è la sera, prima che spunti la luna, e il monte è tutto blu. Due funamboli su un esile ponte avanzano, o forse danzano. Il ponte si piega come una fune. Quei due sono proprio uccelli persi nell’azzurro. Su un altro monte, di fianco al monte blu, pascolano cervi e nella neve germogliano i primi fiori di primavera.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/06/02/la-forma-del-silenzio/

Pensare una nuova Vita insieme dopo il Covid-19

La riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Dopo aver compreso che Homo Sapiens Sapiens è tale in quanto animale pensante, qualcuno si chiede: ma vi è stato realmente il tempo per riflettere durante questi lunghi mesi di quarantena? O hanno prevalso cattive abitudini, oramai croniche nell’imperio dei social?
Per alcune categorie il tempo del lavoro nella quarantena si è raddoppiato – pensiamo ai disagi della didattica a distanza – e ve ne sarebbero altre, di categorie di lavoratori, i quali, tuttavia, in nome del dovere civico hanno dato il meglio di sé, scoprendosi eroi inconsapevoli, e senza nemmeno ricevere un grazie. Il lavoro smart è piombato dall’alto come un dovere imprescindibile.
Vi è poi l’amara questione dei lavoratori i quali, ahimè, si sono trovati a disporre di tanto tempo per pensare poiché hanno perduto la propria occupazione.
È il dramma della crisi economica innescata dalla crisi epidemica.
La certezza nella scienza e nella tecno-scienza è deflagrata. Gli uomini non sono i padroni della Terra. È bastato un banale virus ad arrestare il processo di globalizzazione che si pensava fino a prima di Covid-19 inarrestabile.
Per contro il virus è stato lui ‘globale’ in tutti i sensi, e virale. Ma un microscopico virus che altro può essere se non virale? Il mondo è divenuto epidemico. Già altre volte è accaduto, ma ora l’eccezionalità è senza paragoni. Il rischio di contagio è ancora globale e invisibile, almeno fino alla creazione di un vaccino.
Adesso, oltre al vuoto, si fa strada, mai estinta, l’immaginazione: pensare una nuova vita insieme.
Immaginare la Vita, perché il punto non è sopravvivere, ma vivere, e la vita umana non è mai disgiunta dalla dimensione politica, economica e sociale. L’uomo, proprio in quanto animale sociale, è anche un animale politico. Premesso che la vita senza felicità non è vita, quale sarà l’impegno reale dei politici quando si saluterà finalmente l’uscita di scena di Covid-19?
Per la costituzione americana l’uomo ha diritto alla felicità.
Non si conosce chi per primo, fra i costituenti americani, abbia avuto  la brillante quanto temeraria intuizione.
Ma che cosa è la felicità? Quasi tutti i grandi filosofi l’hanno cercata, ma nessuno ha potuto declinarne chiaramente l’ “in sé”.
Quaesiverunt ac non invenerunt: forse perché, semplicemente, la felicità non esiste o, almeno, non esiste per come noi siamo portati ad immaginarla,  senza, tuttavia, saperla neppure definire. Proviamo, allora, col procedere “a contrario” e col rinunciare ad una ricerca e definizione ontologicamente universale.
Cos’è l’infelicità per l’uomo nei tempi che viviamo? L’infelicità oggi è la presenza del contagio, della pandemia. E la felicità è la sua assenza.
Certo, una felicità temporanea, contingente, relativa, passeggera e, per di più, da conquistare e saper gestire: la felicità del domani, del dopodomani e nulla di più.
Quando l’avremo raggiunta, dopo un po’, non conterà più, quale categoria aprioristica dell’essere e del pensiero.
Nondimeno, dovremo contentarcene e riprendere il cammino: magari ripensando alla folgorante immagine di Pascal, che vede l’umanità correre  allegramente verso il precipizio, dopo essersi posta davanti qualche cosa che ne impedisca la vista.
Ecco una riflessione che può venir buona in questi tempi: almeno stiamo in guardia per  non correre verso il precipizio con la velocità cui siamo adusi.
Ricordiamoci di quella breve frase in latino,  che era impressa negli anni ’70 su molti libri di scuola, come invito agli studenti, un ossimoro che può guidarci: festina lente,  affrettati lentamente.
Ma forse oggi è più comprensibile ed attuale la stessa indicazione data in inglese con la locuzione hurry but slowly.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/05/21/pensare-una-nuova-vita-insieme-dopo-il-covid-19/

“Il virus della paura”: interviene Gustavo Cioppa

La riflessione del magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Senza informazione si crea il panico, la troppa informazione crea confusione. Quale giusto equilibrio?
Questa è la domanda che ci attanaglia da quando abbiamo capito che l’Italia era vulnerabile come la Cina e come tutte le Nazioni di questo pianeta e che anche noi saremmo stati colpiti da questa “Idra” che conosciamo di giorno in giorno.
Parlare del virus per esorcizzarne la paura. Tutti i giorni assistiamo ad interviste, inermi davanti a pareri discordanti: chi dice state in casa, chi dice che il virus fa come gli pare, chi ancora ci invita a riprendere la nostra esistenza, per ridare vita a città sempre più fantasma, chi paragona il virus ad una normale influenza.
La nostra verità è quella che ci vogliamo dare, la stessa, che consente di vivere un quotidiano che non ci soffochi di angosce.
La rielaborazione del fatto dettato dall’esperienza personale e dalla soggettività che ognuno di noi ha, non è più un parametro di vita. L’unico e vero parametro dovrebbe essere la scienza, che ad oggi, sia pure con difficolta, si impegna ad arginare l’evoluzione del virus.

Ancora una volta noi cerchiamo di credere in quello che ci dicono, perché non vogliamo perdere del tutto la fiducia: “ci fidiamo” oggi in un momento storico, dove la fiducia è disattesa da tutte le parti, l’incertezza dilaga, e sono più le domande  delle risposte .
Perché in un mondo come il nostro si smette di studiare e sperimentare, perché i famosi fondi alla ricerca vengono periodicamente tagliati senza pensare che in tal modo si colpisce uno degli elementi essenziali della nostra civiltà, compromettendo il nostro futuro?
Non ho una risposta a tutte queste domande, ho solo la speranza che dopo questa profonda crisi diversa da tutte le altre, raccontate in letteratura, si riscoprano valori e si impari a far diventare l’imprevedibile, prevedibile.
Il trinomio epidemia, contagio e quarantena è indice di cambiamento e ha modificato la storia e l’economia sin dal dal 1300 con la peste nera che devastò l’Europa.         

Da Boccaccio a Manzoni si narrano morte e disfacimento delle abitudini e dei costumi, anche allora la critica alle autorità incapaci di prendere misure efficaci. Il bisogno di trovare un colpevole, la paura del contagio che ha rievocato in molti di noi il disvalore delle divisioni, la paura dell’untore.
I muri territoriali e sociali che speravamo essere crollati con le globalizzazioni sono quanto mai di moda.

La nostra cultura e il nostro ingegno sono ormai secondari alla paura. Non sapremo quando e come, ma dalle ceneri come una fenice dovremo rinascere, avendo fatto tesoro dei nostri errori sulla gestione  della comunicazione. Per l’ennesima volta, uno spettro aleggia sopra gli umani, proiettando ai loro occhi orizzonti sinistri. Occorre, allora, ricorrere ad  una lente speciale per evitare visioni fuorvianti e portatrici di suggestioni: la lente della ragione. Tutte le cose e le vicende umane hanno un inizio ed una fine. Così, la terribile esperienza del virus, che si è abbattuto su di noi, è destinata a concludersi in una dinamica scandita dall’alfa fino all’omega: a ciascuno il compito di far in modo che siffatta declinazione sia rapida e priva di errori.

Forse per ora c’è una paroletta magica che gioverebbe a tutti. La parola virtuosa è “sobrietà “da parte di tutti: degli scienziati (chiamati a darci lumi), dei politici e di noi tutti, cittadini di un mondo che si de-globalizza e, contemporaneamente, deve affrontare una pandemia globale. La sobrietà sarà  l’antidoto al panico ed all’euforia e ci renderà più forti ed uniti.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/05/16/il-virus-della-paura-interviene-gustavo-cioppa/

“Alla Cortese Attenzione degli umani: siate sentinelle del futuro”

Una riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.

Pier Paolo Pasolini  (“Il pianto della scavatrice”)

Per fortuna, non tutti gli italiani sono irresponsabili. È forse quell’atavico volere fare i furbi che non ci fa fare bella figura all’estero, per esempio, quando si è in coda e il solito furbo vorrebbe farla in barba agli altri, e non rispetta il proprio turno? Parola-chiave è rispetto. Adesso più che mai in quest’avvio di fase due. Rispetto, innanzitutto, di poche e semplici prescrizioni, che tutti conosciamo: l’uso delle mascherine, i guanti, il distanziamento sociale. Poi ci scandalizziamo dinanzi all’imbecillità di certi comportamenti. Sono cose dell’altro mondo, ma qualcuno – i soliti ignoti – l’ha fatto.

C’era una volta un mondo in cui tutti se ne stavano rinchiusi nelle proprie case, somiglianti a gabbie, e quando uscivano – solamente pochi avevano il coraggio di farlo o, forse, lo facevano per necessità imprescindibili, la ricerca di cibo o del medicinale indispensabile – indossavano guanti di lattice e mascherine. Poi, in un radioso mattino di maggio, si spalancarono i cancelli dei parchi e una frotta di bambini scatenati si riversò nei prati. Si udì una voce: “Per quanto tempo si possono tenere segregati dei bambini?…”

Anna Frank ci rimase 25 mesi per non essere scoperta, e qualche incosciente ha il coraggio di lamentarsi? Guardate lo sguardo vacuo di quei genitori incoscienti che hanno portato al parco i loro pargoli a giocare a calcio dribbling… tutti senza mascherine, senza guanti. La stessa voce di prima parlò di nuovo: “Non li si può tenere sempre con la museruola, sono bambini. Basta panico, altrimenti non ne usciremo più. Che si prenda in forma leggera il Covid-19, non sarebbe un male, si avrebbe finalmente quell’auspicata immunità di gregge.”

Una sera, il popolo dei Navigli uscì, spinto per insopprimibile nostalgia della Movida milanese, e volle brindare. Via le maschere, e il distanziamento sociale, iniziarono i balli, frizzi e lazzi, quella brava gente voleva lasciarsi alle spalle i mesi passati a Divano Marittima. Che tutto finalmente si perdesse nell’oblio! Il frastuono e gli sghignazzi riempirono quegli spazi fino a pochi attimi prima immersi in un silenzio spettrale. Le volanti della polizia arrivarono e il popolo dei navigli ammutolì. Solamente un cameriere di mezza età, anche lui senza mascherina disse, ma a bassa voce: “Ma son solo ragazzi…”

Di “matta bestialitade” abbonda la storia del genere umano.

Il contagio non è frutto dei decreti, ma delle cattive condotte di chi ha gestito le RSA, dove il virus ha compiuto una vera e propria strage di poveri anziani inermi. E se le cattive condotte ci sono state pure negli ospedali, non è certo colpa di medici e personale sanitario. Sicuramente, il contagio sarebbe stato più ridotto se tutti avessero osservato delle semplici prescrizioni. È un problema di coscienza se ci sono stati e forse ci saranno comportamenti criminaloidi. Ma non tutti gli italiani sono irresponsabili. Certo, occorre che ciascuno abbia scolpita dentro sé la massima kantiana: Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto!, e diventi una sentinella del Bene comune. Ma affinché questo accada è necessario che ci sia la coscienza in ogni uomo.

L’Appello per la libertà della Chiesa e del pensiero di Aldo Maria Valli (7 maggio 2020), sottoscritto da esponenti della Chiesa, della cultura, del mondo medico-scientifico, ha aperto scenari inquietanti. Che nel Covid-19 vi sia la mano dell’uomo è convinto il premio Nobel Luc Montagnier. Che dietro a tutto questo – la pandemia, il panico, la crisi economica e sociale – vi sia una sorta di entità sovranazionale, è ipotizzabile, anche se non è dimostrato e forse non lo sarà mai.

Un’entità dall’alto potenziale terroristico, che ha “fortissimi interessi commerciali e politici in questo progetto” (Cfr. A. M. Valli, Appello per la libertà della Chiesa e del pensiero), il cui scopo è la dominazione del pianeta. Be’, quest’entità misteriosa, senza volto – come il virus forse da essa creato – non ha fatto i conti col segnale lanciato da Covid-19 all’umanità. Un segnale, innanzitutto, di attenzione verso quei comportamenti violenti e nocivi dell’uomo sulla natura. Che non si perseveri più su quella strada che si potrebbe chiamare liberismo, disboscamento selvaggio, sfruttamento delle persone ridotte in schiavitù in fabbriche che somigliano in maniera impressionante alle officine Renault degli anni Trenta del Novecento, dove mise piede come operaia Simone Weil per condividere l’esperienza del popolo degli sfruttati fino a lasciarci la vita. Ma prima di andarsene, a trentaquattro anni, stroncata da polmonite per gli stenti e gli eccessi di un lavoro massacrante, la grande filosofa ci ha lasciato quel memorabile libro che è La condizione operaia. Covid-19 ci dice anche di quegli

operai, spesso bambini, costretti a lavorare per pochi spiccioli in Paesi dove le persone non sanno neppure di avere dei diritti. E sempre Covid-19 ci mette davanti al totalitarismo della società dei consumi, l’opulento Occidente, la cui economia è ora in ginocchio. Ci mette di fronte alla vacuità dell’impero dei social, figlio della società dei consumi, alla comunicazione distorta, manipolata. Per alcuni pensare sarebbe un atto onanistico, assolutamente fuori tempo, fuori luogo, fuori moda. Ma lo era già da un po’, Signori miei. Rammento a chi preferisce una vignetta o un video a una frase che, almeno una minoranza ama leggere un libro, e conservare uno sguardo scevro da paraocchi. E sempre questa minoranza è fiera di permettersi il lusso del dubbio, anche, forse, per immaginare un mondo diverso, migliore.

C’è voluto il passaggio di Covid-19, e non se n’è ancora andato, affinché si ritornasse a pensare.

Turbati da questa situazione che a tratti sembra irreale, in preda all’ansia, ci si sente come un bambino smarrito. Ci sarebbe bisogno di raccoglimento per discernere. Ma qualcosa ci distoglie dall’attenzione, così necessaria. “L’attenzione assolutamente pura è preghiera.” (Simone Weil). Ma qualcosa, forse quell’entità senza volto, non ci permette di fermarci, per riflettere e discernere l’essenziale dal superfluo. Spesso è un girare a vuoto, prigionieri della paura. Talvolta è un circolo vizioso spacciato per dovere civico. Non ci permettono di fermarci, di pensare, pregare, piangere, leggere. Vorrebbero che il nostro cuore si indurisse, come una pietra. Come il loro cuore. Sarebbe essenziale, invece, fare silenzio, adesso. Per rispetto verso i morti, per aiutare con la preghiera chi sta combattendo contro questo subdolo nemico invisibile. Per sostenere medici e infermieri che hanno dato la vita, anche per chi forse non ha avuto un atteggiamento di rispetto verso sé e gli altri, e per questo si è ammalato. Che ognuno sia una sentinella dell’umano e come ogni sentinella vigili, sia attento. Capite, il silenzio per salvaguardare l’umano, ciò che resta dell’umano: la pietà, la fratellanza, la ‘sana curiosità, lo stupore.

A chi affidare le sorti di una rinascita? Chi potrebbe influire nella genesi di un mondo e una società nuovi, che ogni uomo di buona volontà non può che auspicare dopo questa gravissima crisi da cui si spera al più presto di uscire?

Forse i nonni – i Lari e i Penati di ogni famiglia – unici depositari di quei valori, ahimè di un tempo e una civiltà perduti, in via d’estinzione nella generazione dei figli, condannati a seguito di questa grave perdita, a pagare le colpe dei padri – perché anche i padri, almeno alcuni, non sarebbero esenti da colpe (Cfr. Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane) – e, poi, sicuramente i bambini, i quali, come insegna il Fanciullino di Pascoli, hanno il privilegio di commuoversi dinanzi alla bellezza.

Forse, saranno i bambini… Lasciate che i bambini vengano a me… (Marco, 10,13-16)

Forse saranno i nonni, che continueranno a educare i nipoti a quei valori dimenticati, bistrattati, trasmutati in pseudo valori che non hanno nulla di virtuoso, ma alimentano le brame di una società avida, corrotta, egoistica. Ma un ruolo fondamentale spetta anche sicuramente ai docenti: che siano “buoni maestri”, capaci di educare innanzitutto all’aretè (virtus per i latini), quel valore spirituale in cui risiede la bravura morale di ogni uomo.

I bambini, i nonni – quei padri sacri, spesso relegati in case di riposo, rivelatesi ahimè “letali” nell’attacco del coronavirus – i docenti, e tutti gli uomini e donne dotati di buona volontà: questi gli agenti catalizzatori di un mondo nuovo, nato sulle ceneri di uno vecchio, il quale, se dovesse persistere come prima, non potrebbe che finire per entropia.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/05/11/alla-cortese-attenzione-degli-umani-siate-sentinelle-del-futuro/

Il ruolo dei nonni e della scuola al tempo della pandemia

Una riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia

Problema fra i più rilevanti di quelli causati dalla pandemia, che stiamo attraversando, è quello della gestione di minori, scolari, alunni, nelle ore della giornata che non li vedono impegnati a scuola. Il quesito da risolvere è la conciliabilità degli orari di lavoro di padri e madri con quelli scolastici. Ed è palese che ci sono ore, non poche, di “scopertura”- “si dicere licet” – nelle quali occorre prendersi cura di piccoli ed adolescenti. Il fatto è che coloro che egregiamente (e, si vorrebbe dire, gioiosamente) hanno sempre risolto il problema sono stati i nonni, les grands – pères, i quali attualmente non possono più farlo, a causa dell’elevato rischio di contagio, che l’età avanzata porta con sè. Che fare, allora? Pare evidente che debba essere l’organizzazione scolastica a porsi concretamente la questione ed a risolverla adeguatamente, operando soprattutto sugli orari di permanenza in classe o, comunque, nell’ambito scolastico. Si parla, “ab imis temporibus”, di rinnovamento profondo della scuola, salvo introdurre, di volta in volta, innovazioni   rivelatesi, per gran parte, puntualmente improvvide. La scuola è stata, negli ultimi decenni, la “cenerentola” della società, con livelli di disorganizzazione sempre più drammatici: e non certo per colpa del corpo docente. Ecco, allora, un’occasione storica per ripensare efficacemente il ruolo della scuola nella attuale società e por mano, “cognita causa”, a tutti i mutamenti che fanno di una cattiva scuola una scuola buona ed al passo con i tempi. Occorre potere, volere e sapere trasformare il drammatico impatto dell’epidemia in un riscatto della dignità e dell’alta funzione sociale della scuola: e ciò, proprio con riferimento alla giornata dello scolaro ed alla compressione del prezioso, in tutti i sensi, ruolo dei nonni. Dico, volutamente, compressione, perchè voglio sperare che, passato il tempo del contagio, i nonni possano riprendersi l’inimitabile ruolo, che hanno sempre avuto, di prendersi cura dei propri nipoti nell’età più delicata. E non è che i nonni fungessero da meri “bambinai” o da porti di salvezza, per conciliare il lavoro dei genitori con le esigenze dei piccoli: no, proprio no. Tralasciando ogni retorica, fuorviante e fuor d’opera, si può e si deve dire che i nonni hanno sempre rappresentato una fonte di insegnamento, preziosa e complementare a quella scolastica. Una lunga vita lascia cospicue tracce ed insegna molte cose. Nelle famiglie dell’antica Roma i Lari e i Penati – che in età classica persero buona parte degli elementi diversificanti – erano gli spiriti degli avi, degli antenati, che proteggevano la famiglia e la casa. E il loro culto era “res sacra”. La radice del termine Lare – lar – in etrusco significa, appunto, padre, in senso sacrale. Orbene, i nonni, al tempo della pandemia, saranno i Lari e i Penati viventi, temporaneamente posti in attesa quasi mefafisica, ma pronti a riprendere il proprio ruolo, quando tutto sarà finito. Nel frattempo, la scuola, supportata dalle altre articolazioni sociali che le sono contigue, deve farsi carico del problema, ma, soprattutto deve essere posta in condizioni di farlo. Si vorrà negligere tale occasione? Un’occasione che, unitamente agli altri benefici, potrà ridare alla scuola quella dignità e quel ruolo sociale, che le sono, nel tempo, stati sottratti da una politica miope, insipiente, autolesionista? Rileggiamo “L’Emilio” di Rousseau e forse potremo trovare scienza, apprensione e consapevolezza dell’ “in sè”- per dirla con Kant – dell’educazione quale magistero educativo..

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/05/02/il-ruolo-dei-nonni-e-della-scuola-al-tempo-della-pandemia/

“Goodbye, Libertà…”: vivere al tempo del coronavirus

La riflessione del magistrato Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo di Pavia

Il problema è avere gli occhi e non sapere vedere,
non guardare le cose che accadono…
Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non
sono più curiosi. Che non si aspettano che accadrà
più niente. Forse perché non credono che la bellezza
esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa,
rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi
di infinito desiderio.

Pier Paolo Pasolini

Quello che salta all’occhio, adesso, è un’accentuazione della mancanza di libertà. Ma non lamentiamoci. Siamo vivi, questo il miracolo, ogni giorno. Non che tutto, prima, fosse più bello, buono, genuino, giusto. Tutt’altro. Ma almeno un effetto collaterale positivo del virus c’è stato: la diminuzione dell’inquinamento. Abbiamo lasciato in garage le nostre automobili e, reclusi nelle nostre abitazioni, continuiamo a lavorare, magari più di prima, grazie allo smart working. Qualcosa è mutato nei nostri comportamenti. Restiamo a casa, resistiamo. Consapevoli e responsabili, evitiamo lo spettro del contagio. Intanto aspettiamo il vaccino, che ci faccia ritornare, finalmente, alla normalità. Già è una conquista la diminuzione dell’inquinamento, di cui hanno tratto giovamento soprattutto i malati d’asma. Ma quei droni che svolazzano in ogni dove come gigantesche libellule metalliche dai mille occhi, e quelle telecamere puntate come canne di fucili, non solo fuori, ma dentro casa? Senza dire dei satelliti, ‘cose’ superate, ormai, dalle nuove tecnologie. E che dire delle app a scopo sanitario?… Se prima esisteva una parvenza di libertà, nell’era del Coronavirus – tra i nuovi comportamenti e mutazioni varie, o modificazioni (spero non genetiche), abiti mentali, procedure – non più. Addio, Libertà… Speriamo sia solo goodbye, Libertà. Ma una cosa è certa: il mondo e l’uomo, dopo il transito di Covid19, e non ne siamo ancora usciti, non saranno più come prima. Saranno migliori?
Almeno potesse comparire l’ombrello di Mary Poppins, per volare altrove, in un punto della Terra non contaminato dal virus. Ma ammesso ci sia, il portentoso ombrello, non si potrebbe comunque andare da nessuna parte. La pandemia ha raggiunto ogni luogo del pianeta. E quegli slogan che imperversano sui Social, tanto tranquillizzanti quanto imbecilli: “Andrà tutto
bene…”, li trovi dappertutto, anche sul balcone di un’impresa di pompe funebri. Signore e signori, rallegriamoci: la fase da bollino rosso è finita. Siamo quasi nella fase due, da bollino giallo. Diminuiscono i decessi, i contagiati, i positivi, si chiudono i reparti di terapia intensiva.
Nessuno aveva immaginato quanta nostalgia avremmo avuto dell’abbraccio di parenti e amici, di una funzione religiosa, una sala di teatro, la visita a una mostra, una tavolata conviviale e anche lo stare pigiati in metro, che ci procurava un certo fastidio, ma che ora ci manca. Era il nostro mondo. Lo era, anche la ressa in aeroporto o in stazione, per salire su un treno, magari diretti nella tanto agognata vacanza. Viaggiatori verso il centro immobile della propria anima, lì conviene andare e fare un bel repulisti. Qualcuno forse aveva pensato a qualcosa del genere, ma era la trama di un romanzo distopico. E Ridley Scott, per Blade Runner (1982) aveva immaginato che l’anno fatidico fosse il 2019. Toh, l’anno del Covid.
Due ragazzi – mascherina e guanti di lattice – portano la spesa a chi è solo, emarginato, troppo anziano per esporsi alla minaccia di un nemico subdolo e invisibile. Il centro storico della città è spettrale, non c’è nessuno, tranne quei due. La pioggerellina di marzo fa ancora più belle le violette e gli alberi in fiore sono un antidoto alla paura. Dalla finestra aperta di un palazzo la musica di Funiculi Funiculà versione operistica allarga il cuore. I due ragazzi vanno mano nella mano, nell’altra la sporta della spesa, sperano che “La bellezza salverà il mondo”.

Nella fase tre si potrà tornare a sfiorarsi le mani, una guancia? Che ne sarà del contatto fisico, inscritto nella comune radice antropologica degli esseri umani, e pure degli animali? Loro potranno continuare a farlo, gli animali. Ma noi, probabilmente continueremo a guardarci con sospetto, almeno finché non ci sarà un vaccino. E se il Coronavirus avesse subito delle modificazioni? Certo, ragionando così si continuerà a vivere nel panico, succubi della paura.
Conviene navigare sottocosta, giorno per giorno, poi si vedrà.
Una sera, alle 23, nella mia via sono arrivate le macchine della polizia, seguite da una specie di trattore che sembrava un carro armato. L’altoparlante gridava di non uscire dalle proprie abitazioni fino alle 24 perché era in corso una sanificazione. Le luci bluastre delle volanti proiettavano delle figure sinistre sulle pareti delle case, così lugubri da sembrare disabitate. Al crepuscolo, per po’ di giorni si è sentito echeggiare nell’aria l’inno nazionale. Si spalancavano le finestre e la gente usciva sui balconi, e i più applaudivano. Dai terrazzi sventolava il tricolore. Era un marzo anomalo, da primavera inoltrata. Poi siamo rimasti attoniti alle parole del Primo Ministro Inglese, primo fautore della teoria dell’immunità di gregge, ahimè seguita da altri leader dopo di lui, ma non da noi. Fa inorridire il pensiero che si possa sacrificare la vita dei cosiddetti ‘deboli’ (anziani, immunodepressi, soggetti con patologie a rischio), per selezione
naturale destinati a soccombere, al fine di sviluppare una fantomatica immunità di gregge. Gli esseri umani non sono un gregge. Per fortuna sono italiano e non penso più di fuggire dal mio Paese. Sono orgoglioso che fra gli antenati degli italiani vi siano Dante, Michelangelo, Botticelli, Leonardo, Galileo, e la lista sarebbe interminabile; giganti che hanno fatto brillare l’Italia di vera civiltà e non di civilizzazione. Perché questi due nomi tra loro imparentati non sono la stessa cosa.
Negli ospedali di Bergamo, Brescia, Milano e di tutta Italia non si è verificata la deriva della pietà. Medici e infermieri continuano a prodigarsi con inalterabile dedizione nella cura degli ammalati di Coronavirus, che nella Fase uno purtroppo aumentavano ogni giorno. Negli ospedali si lavorava a turni estenuanti, in condizioni impossibili. Le agghiaccianti testimonianze dei medici – essere in prima linea senza nemmeno l’equipaggiamento – crescevano. L’emergenza da pandemia era al culmine. Il numero degli ammalati in terapia intensiva aumentava e, purtroppo, anche quello dei medici ammalati e del personale sanitario. La primavera era esplosa ma si respirava un’aria di morte, anche nei fiori e nei fili d’erba s’impregnava lo strazio dei condannati a morte senza nemmeno il conforto dei familiari accanto.
Dopo avere sfrondato l’essenziale dal superfluo, ritornano la compassione e l’empatia. Non si può non mettersi nei panni degli agonizzanti negli ospedali, i quali hanno come unico conforto gli occhi di un angelo: l’infermiera dietro la visiera. Faceva il giro del mondo la storia del medico che prestò il cellulare alla nonnina, la quale poté così parlare con la nipote per l’ultima volta e poco dopo morire serena. Ci si sentiva tutti uniti nello strazio e nella paura.
Beato chi riesce a piangere. È un po’ come fare un bel repulisti nell’anima, per ritrovare, dopo essersi liberati di ciò che è dannoso e superfluo, solo l’essenziale. Gli occhi, in fondo, non sarebbero stati creati per vedere, ma per piangere. (Jacques Derrida, Memorie di cieco).
Verso Pasqua, si è cominciato a parlare dell’addio alla migliore generazione – quella dei nostri padri e dei nostri nonni, di coloro che hanno visto la guerra e contribuito a costruire questo Paese – stroncata dal Coronavirus. Che gli anziani fossero i più colpiti si è saputo fin da subito. Non si sapeva nulla, invece, degli orrori delle case di riposo, dove il virus ha compiuto una strage.

In questa Fase uno si era uniti, ed era bello quel “sentirsi tutti sulla stessa barca”, ma forse quest’impulso alla fratellanza e alla solidarietà era solo un istinto di codardia. Era la paura a farci sentire tutti – Così lontani così vicini – resistenti e resilienti, ciascuno nella propria abitazione? Certo, in ogni parte del mondo, c’erano i soliti incoscienti che andavano al supermercato a fare shopping ogni ora del giorno, o a fare jogging, anche quelli che non l’avevano mai fatto prima. Era la speranza a buon mercato del qui e ora, nei nostri recinti, ma anche la speranza del poi, per cui si vagheggiava un mondo migliore, post virus, grazie al quale la Terra sarebbe diventata il migliore dei mondi possibili. Era l’indignazione verso la deriva della pietà di certi potenti e alcuni comportamenti aberranti. Si tirava un sospiro di sollievo. I nostri ospedali non chiudono le porte in faccia a chi non abbia i soldi per pagare le cure mediche, a differenza di altri Paesi. Qui da noi, almeno per ora, le code sono solo davanti ai supermercati e non ai negozi di armi e munizioni. Quanto a Mister Johnson – primo fautore dell’immunità di gregge – anche lui poi finito in terapia intensiva, be’ che dire? Non abbiamo certo gioito alla notizia. E quando è migliorato ci ha fatto piacere.
Siamo arrivati alla fine della Fase uno – quella più critica – ma gli assassinati dal virus ci sono ancora.

Si annota nella memoria, come in un diario di bordo, come un naufrago, il crescere dello spavento, ed è ansia, ma ci sono, anche, degli sprazzi d’azzurro. Ancora sopravvive la compassione di chi piange. Allora non è tutto perduto? Qualcosa d’umano sopravvive, e si sorride, nonostante il pianto. E si ripete il gesto sacro, ogni mattino: salutare e magari sorridere al dirimpettaio, anche lui prigioniero delle proprie paure, compagno di viaggio isolato nella tempesta. Si vorrebbe ridere, cantare, pregare, ma il silenzio sacro è rotto dalla pletora di diktat invasivi – nemmeno un banale: Ciao, come stai? – e tossici che ti vorrebbero soldatino di piombo o di carne, una cosa sola con la procedura. E se tu volessi replicare, stai pur certo che lo yes man e quelli dell’entourage ti direbbero che devi farlo – il lavoro agile o la didattica a distanza – in nome del dovere civico. E ti fanno persino sentire in colpa verso chi soffre davvero, e muore. Medici e infermieri con dedizione, compassione e sapienza, loro sì, lavorano davvero, e sacrificano ogni giorno la propria vita nell’inferno degli ospedali. Si dovrebbe tacere, almeno per rispetto verso i morti. Ma tu, povero prof, caro impiegato, cos’altro chiedevi se non un po’ di silenzio? Per connetterti non al computer o allo smartphone, nella gabbia che è diventata la tua casa. Non cresce il seme nel silenzio dell’umile terra?
I comportamenti sono cambiati. Ma quanta e nuova aberrante alienazione. Punti di vista. Che non si lamentino quelli che hanno la fortuna di lavorare, ma ringrazino a mani giunte per ciò che hanno: la salute, una casa, un lavoro. Soprattutto lavorino, e più di prima, tanto da non avere il tempo per pensare, una benedizione – il superlavoro – per scacciare i cattivi pensieri.
Per alcuni l’attesa della fine di questa guerra batteriologica somiglia tremendamente al copione beckettiano di Aspettando Godot. Ma dovrà pur finire?!… L’altra attesa – quella di un mondo
migliore – ahimè, sarà sine fine. Sia che si guardi a un passato remoto o a un futuro remoto, l’uomo non cambia. Anche negli ambienti più ostili, per un’insopprimibile legge di sopravvivenza gli organi dell’uomo riescono ad adattarsi.
Un’idea di speranza è nei ‘disegni naturali’ di un ragazzo della Costa del Galles che, seppure effimeri, rinascono dopo che l’onda li ha cancellati. L’uomo non cambia, nel bene e nel male. Impossibile arrestare il piacere di creare: flusso inarrestabile, come la vita, come la freccia di una spirale puntata all’esterno. Ogni giorno quel giovane, armato di rastrello, pazienza e determinazione, va sulla spiaggia per dare forma con le mani a qualcosa di bello, nuovo e irripetibile, come la vita. Ogni forma di vita. Perché lo fai? – gli hanno chiesto – Per la mia salute mentale… ha risposto. Un giovare a sé e agli altri, questo il segreto delle creazioni effimere di quel ragazzo.

La sensazione di essere immersi nell’oscurità in pieno giorno. Le case, il cielo, il mare, il battello attraccato al molo, tutto è grigio plumbeo. Ma un lembo della cabina è illuminato. La parete, di un bianco metallico, è come se brillasse di luce propria. Partirò da lì, da un punto luminoso in mezzo al buio. Ammesso riesca a conservare i miei neuroni. A patto di non farmi risucchiare da certe gabbie che di fatto hanno modificato la vita di tutti. Prima o poi il cielo si squarcerà, e il battello salperà. In questa interminabile quarantena, ancora occorre raccogliersi in sé, nel silenzio, come Noè nell’arca. È consolante che almeno i nostri amici a quattro zampe siano immuni al virus, almeno desidero pensare così, anche se alcuni studiosi non ne siano del tutto sicuri.
Ancora occorre raccogliersi in sé, nel silenzio, poiché di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. (Ludwig Wittgestein, Tractatus logico-Philosophicus).
Mi piace pensare a quel lembo di luce come a un barlume di speranza – ognuno ha la propria – fosse pure quella dell’immaginazione, del sogno. Ma affinché quel punto luce dilaghi e sia finalmente aurora, occorre che ciascuno conservi il bene più prezioso, inscritto nel DNA di ogni essere umano, e che nessuno, nemmeno uno stupido virus, potrà distruggere: la libertà.

Dott. Gustavo Cioppa

(Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia, già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/04/28/goodbye-liberta-vivere-al-tempo-del-coronavirus/

25 aprile: la riflessione di Gustavo Cioppa

“Ingiusto mettere insieme la Festa della Liberazione e la memoria delle vittime del Covid-19”

L’idea di dedicare il 25 aprile, ormai storica Festa della Liberazione, con l’omaggio alle vittime del Covid mentre rivela un sentimento nobile per coloro che hanno in entrambi i casi perduto la vita, cioè il bene più prezioso,  non riesce a eliminare la diversità, sotto ogni profilo, delle due ipotesi e pertanto finisce con il fare una confusione impropria e forse anche ingiusta. Certo, la Festa della Liberazione è un modo per non perdere la memoria di un passaggio oggettivamente tragico della storia del nostro Paese, per entrambe le parti che si confrontarono. Peraltro, l’alba della Repubblica, salutata ancora con un aspro confronto politico-ideologico, ha visto anche l’impegno e la sinergia di forze tra loro diverse per gettare le basi di un periodo di pace e di democrazia parlamentare, impegno che, ancora oggi, dovrebbe ridurre a poco le pur fisiologiche diversità di opinioni e di ideologie. Quel poco, però, è stato sufficiente per non azzerare del tutto i malumori che la Festa della Liberazione ha puntualmente alimentato. La memoria, d’altra parte, che tesaurizza i nostri ricordi, soggettivamente belli o brutti che fossero, è qualcosa che non può essere ridotta al fastidio di qualche corteo imbandierato o a qualche chiassoso canto, ma va custodita almeno quanto ai valori che meritano di essere trasmessi alle generazioni successive.
Per le vittime di questo virus subdolo e misterioso quanto alle origini e ai rimedi ci si può chiedere se sia il caso di unirne il ricordo ad una festa, perché tale è la Festa della liberazione. Per le vittime del virus, e non vale la pena di pensare ad altre responsabilità, ci sarà tempo anche per questo, ma di sicuro non per una festa. Dunque non si tratta solo di ipotesi diverse, vittime nell’uno e nell’altro caso solo in quanto ha visto finire la vita di molte persone, troppe, ma per ragioni che non meritano di essere celebrate o semplicemente ricordate insieme. Si può pensare a cementare la memoria anche di questo tragico evento che ha colpito l’intero mondo, in ogni possibile latitudine, magari unendo il ricordo a quello di altri Paesi ugualmente colpiti. Si tratta infatti, a differenza della resistenza e della Liberazione, di qualcosa che non appartiene solo alla memoria italiana, ma del mondo intero, sì al contrario di una festa nazionale sarebbe meglio pensare ad una giornata mondiale della memoria e insieme, questo sì, della solidarietà: invocata a parole oggi, ma rimpiangeremo, col senno di poi, di non  avere coltivato abbastanza.
In definitiva, mettere insieme le due cose sarebbe ingiusto, a voler tacere della possibilità di polemiche delle quali francamente non sentiamo il bisogno.

Dott. Gustavo Cioppa

25/04/2020

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/04/25/25-aprile-le-riflessione-di-gustavo-cioppa/

Il dramma delle case di riposo: interviene Gustavo Cioppa

La riflessione del magistrato, già Procuratore Capo di Pavia. “Residenze sanitarie per anziani o Residenze letali?”

RSA o RLA? Residenze sanitarie per anziani o Residenze letali? Il quesito può apparire crudo, provocatorio, ma non è questo il senso in cui intenderlo. Sottende, invece, un gigantesco perché, cui le riflessioni che seguono cercano qualche risposta.

Negli ultimi giorni si è cominciato a prendere concretamente atto dell’imponente numero di decessi riguardante le RSA e sono state avviate indagini penali dalle Procure competenti ed inchieste amministrative dal Ministero della Salute. Saranno, dunque, gli organi competenti a verificare se siano stati commessi reati e/o se ci siano stati illeciti disciplinari et similia. Non è questo, tuttavia, il punto focale dell’interrogativo.
Perché?
Fin dagli inizi, è stata data ampia e reiterata comunicazione del fatto che i decessi provocati dal contagio virale concernevano le persone anziane in percentuale inaudita: 90/80/70)%.
Non sono mancate dotte disquisizioni, giacché hanno detto la loro il colto e l’inclita, in gran copia.
Si è, quindi, data per assodata la questione, che in realtà era e resta un fenomeno, e il dato è finito fra tanti altri: neppure fra quelli di particolare interesse, visto che è stato citato, più o meno, occasionalmente nei quotidiani annunci sull’iter del contagio.
Delle RSA non si è parlato. Alle RSA non si è pensato. Eppure, se gli ospedali più specializzati ed avanzati facevano grande fatica ed erano in sofferenza, come poteva il personale delle RSA, esiguo e non specializzato, far fronte al flagello del virus, connotato da alta diffusività? In tale stato di cose le RSA si sono tramutate in una sorta di trappole mortali, in cui il contagio ha mietuto a piene mani.
Ebbene, fin da subito, s’è osservato,  è apparso chiaro, è stato noto che il  principale bersaglio erano le persone anziane, parte delle quali ospitate nelle apposite Residenze.
Perché, dunque, non si è operato in modo da proteggerle? Perché?
È passato un lungo tempo e non si è fatto quanto era chiaro che si dovesse fare, subito e con la determinazione del caso.
Perché, perché gli anziani sono stati lasciati così, in luoghi chiusi, dove un solo contagiato ne avrebbe certamente infettati molti altri?
Così è precisamente avvenuto e la sequela dei decessi ha assunto le forme di una autentica moria di inermi, lasciati in balía degli eventi. Gli anziani sono stati facili vittime della calamità ed oggetto crudele della sostanziale indifferenza di tanti loro simili, magari più giovani.
E non si dica che la virulenza del contagio ha attaccato di sorpresa. Una volta inquadrato il terribile problema, si sono messe a punto strategie, continuamente calibrate, soppesate, valutate e rivalutate, a livello nazionale e territoriale.
Perché, allora, per gli anziani “contenuti” nelle RSA, no?
Perché no?
Qui non interessano i profili di responsabilità penale, amministrativa, disciplinare, che, certo, dovranno essere accertati da chi di competenza, sempre che non risultino parte di una aggrovigliata moltitudine, di difficile decifrazione nella attribuzione delle singole condotte e mancanze.
Tutto quel che qui si vorrebbe è una risposta al perché.
E più si riflette e più si giunge alla conclusione che una risposta, nella direzione e nel senso ricercati, non ci sarà. E non ci sarà per il semplice  motivo che non può esserci.
È, infatti, una risposta che attiene alle coscienze, giacché l’aspetto che non concerne la giustizia degli uomini e, anzi, la trascende, è qualcosa di ontologicamente tremendo: è il volto brutale di una tragedia nella tragedia, si vorrebbe dire di “uomini e no, di uomini contro” ma ci si ritrae atterriti e si rifiuta siffatta immagine.
In fondo, fanno molti più danni le insipienze, i pensieri deboli, le incapacità, le mediocrità che non qualsivoglia altra causa. È per questo che il perché, oggetto di queste considerazioni, rimarrà a galleggiare nel vuoto, povero interrogativo condannato a restare solo con sé stesso: troppo ambizioso, per non essere confinato, tout court, nella sfera della metafisica.
Ai morti, vittime innocenti anche di quanto si doveva fare, di quanto si doveva saper fare, non resta nemmeno l’omaggio di un funerale, come a tutti gli altri assassinati dal virus. Epperò, questi sono morti particolarmente inermi, indifesi, perché non hanno avuto neppure una minima possibilità di provare a mettersi in salvo.
Non resta che, nel rivolgere loro una commossa parola ispirata alla píetas, indirizzare ai vivi – quali che siano le colpe di taluni e l’indifferenza di altri – un monito antico: “parce, parcite sepultis”.

Dott. Gustavo Cioppa

18 Aprile 2020

Fonte: http://www.ilticino.it/2020/04/18/il-dramma-delle-case-di-riposo-interviene-gustavo-cioppa/