Il Covid e la Storia

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Si avverte subito, accostandosi al “tema Covid”, una sorta di profonda ritrosia ad addentrarsi in tal tema: una ritrosia scaturente dall’immenso vociare che si alza nel mondo, dalle teorie che si snodano come i grani d’un rosario, dalla minimizzazione, dalle semplificazioni, dalle previsioni apocalittiche, dalle predizioni bianche e da quelle nere, senza alcuna attenzione per i colori intermedi. È, forse, il caso, allora, di riflettere – astenendosi rigorosamente da tentazioni di entrare in dispute su versanti medici, sociologici, tuttologici, che costituiscono afflizione quotidiana – su qualche precedente storico e su alcuni numeri, che possono aiutare a farsi un quadro “poco fabulizzato” delle vicende che tanto stanno condizionando la nostra vita, ormai da tanto tempo. Parlando di pandemie, la mente corre subito a quella della prima metà del ‘300, la tristemente famosa “peste nera del XIV secolo”, che imperversò per anni, dopo aver avuto origine in Asia, intorno al 1330. Nei successivi anni, vicini alla metà del secolo, il contagio dilagò in Europa, mietendo vittime. I numeri dei contagiati e dei morti, tanto più con le rilevazioni quanto mai approssimative del tempo, non sono certo precisi, ma restano pur sempre significativi di una sorte di apocalisse, che sbigottì gli abitanti del pianeta. Pur con le già citate approssimazioni, s’è calcolato che la peste nera uccise oltre 20 milioni di persone, ovverossia circa un terzo della popolazione europea. Delle vittime in Asia, dov’era nata, ed in Africa non si rinvengono rilevazioni di sorta. L’impatto sul livello della popolazione mondiale fu devastante e ci volle quasi un secolo per colmarlo. Saltando in avanti di quasi tre secoli, si approda al tristissimo periodo, dal 1629 al 1633, in cui “la peste bubbonica” flagellò tutta l’Italia settentrionale e, prima ancora, il territorio svizzero. Chi non ricorda la perdita, nel Nord Italia, di oltre un quarto della popolazione? E chi non ricorda le indimenticabili pagine manzoniane della peste a Milano, che perse addirittura i tre quarti della sua popolazione. Anche codesta pandemia atterrì le popolazioni colpite: tanto più, per rimanere all’Italia, che non mancò una successiva epidemia, che devastò l’Italia meridionale. Sempre sull’onda dei flagelli di bibliche dimensioni, sia nella percezione popolare sia nelle dimensioni che è stato possibile calcolare, si staglia sinistra la pandemia di “febbre spagnola”, che si abbatté su popoli già falcidiati dalla prima guerra mondiale: questa, dopo quattro anni e mezzo di durata, provocò la morte sui campi di battaglia di circa dieci milioni di soldati ed un numero doppio di feriti, ai quali si aggiunse circa un milione di civili morti ed oltre cinque milioni di feriti. Tutti i paesi del mondo stavano uscendo gemendo dalle macerie della guerra, quando furono investiti da un flagello ancor, se possibile, più terribile: l’epidemia di “febbre spagnola”, causata da un virus con varianti assai aggressive. E perchè più terribile? Ebbene, perchè provocò una ecatombe maggiore di quella provocata dalla Prima guerra mondiale. Le stime più prudenti calcolano oltre 20 milioni di morti: quelle più estese parlano di cento milioni di morti. La cifra più verosimile, tenuto conto di tanti fattori, oscilla intorno ai 50 milioni di morti. Nella sola India, si è parlato di quasi 17 milioni di morti. E una spiegazione della terribile letalità di un virus che devastava i polmoni, portando a morte rapida, è stata individuata nelle condizioni di complessivo deterioramento fisico, nella mancanza di idonea nutrizione e   nelle misere condizioni di vita indotte dalla guerra. Ma c’è un aspetto sul quale l’opinione pubblica non pare essersi troppo soffermata: l’arco temporale fra la primavera del ’18 e quella del’ ’20 fu caratterizzato da una cospicua anomalia climatica. Ebbene, un secolo dopo, siamo alle prese con un’altra pandemia che spaventa. E qualcuno negherebbe che, specie negli anni più recenti, l’uomo ha fatto, in qualche modo scempio dell’equilibrio climatico? La sola causa? No di certo. Spaventose aggressioni virali sono il frutto di varie componenti, qual più, qual meno grave. Una semplice coincidenza? Potrebbe darsi. Ma, sovente – allorché nel valutare accadimenti storici precedenti si è, a tutti i costi, voluto parlare di coincidenze – sotto le coincidenze si è rimasti sepolti. Ed oggi? Oggi, ancora una volta, l’umanità è scossa da una pandemia che non risparmia nessuno, salvo che non si voglia dare attendibilità alla reiterata proclamazione, da parte della Corea del Nord, di totale assenza del contagio sul suo territorio.
Del Covid-19 è stato detto di tutto e di più, ancorché il virus, del tutto “immune” alle affabulazioni degli umani, stia continuando a variare ed a seminar lutti. Che dire, allora? Concludere sul filo del discorso fin qui seguito: storia e numeri. Quanto a questi ultimi, colpisce il dato degli Stati Uniti d’America: oltre 800.000 morti finora. Con il Covid in pieno sviluppo, a fronte di poco più di 650.000 morti, complessivi, di pandemia “spagnola”, c’è – par ragionevole osservare – di che riflettere. È ragionevole che, come sempre, la scienza è e sarà l’ancora di salvezza. Epperò, non si può fare dello scientismo il totem salvifico in assoluto. Intorno alla scienza deve posizionarsi una serie di componenti sintonici, capace di rendere più agevole e conchiudente il cammino della scienza.E poi? Poi, non si può dimenticare la forza onnipotente della Natura, che Dante traduce in chiave fideistica, con sublime poesia: “STATE CONTENTI, UMANA GENTE, AL QUIA; CHÉ SE POTUTO AVESTE VEDER TUTTO, MESTIER NON ERA PARTURIR MARIA”.

Dott. Gustavo Cioppa

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2022/04/09/il-covid-e-la-storia/

La Costituzione è un pezzo di carta

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità” (Piero Calamandrei)

Chissà perché, quando si inscena una protesta, l’argomento più abusato è la difesa della Costituzione, nella quale – si dice – sono scolpiti i baluardi che proteggono, senza eccezione, tutte le libertà oggetto di rivendicazione.
Confesso che l’automatismo in questione mi ha sempre lasciato perplesso, apparendomi frutto di una presunzione fondata più che sulla lettura del testo costituzionale, sulla creatività di qualche fantasioso interprete. La Costituzione, al pari di ogni legge – dalla quale differisce esclusivamente per la posizione nel sistema delle fonti – non è il lasciapassare per le velleità di chi la sventola, ma un complesso di regole, prevalentemente a contenuto precettivo, che definiscono l’intero ordinamento giuridico di un certo Paese. I contenuti del testo esprimono, in termini generali, concetti consolidati tradotti in norme vincolanti per tutti: per il legislatore che deve impiegarli nelle leggi ordinarie; per il governo cui spetta realizzarli; per i giudici sui quali incombe il dovere di garantirne l’applicazione. I cittadini, le persone, sanno, o dovrebbero sapere, che la Costituzione è, anche, il limite al potere dello Stato. La sintesi che precede consente di cogliere lo scopo che anima chi si contrappone ai provvedimenti emanati dal legislatore, dall’esecutivo o dai giudici: riaffermare la Costituzione violata. Questa, però, è una semplice prospettiva, un punto di vista che esprime soltanto la posizione di chi decide di protestare, magari leggendo in Costituzione ciò che, in Costituzione, non è scritto. Ho letto della intenzione di dare vita ad un Comitato di liberazione nazionale, come accadde in passato. Fedele al mio impegno di non entrare nel merito delle questioni, mi limito a sottolineare che, pur al netto della eccessiva enfatizzazione, la Costituzione non è una bandiera da agitare per finalità politiche, ma – come ha detto Piero Calamandrei – è “un pezzo di carta” sul quale è scritto che cosa si può fare quando i provvedimenti (di legge, amministrativi, giudiziari) sembrano contrastarla. I giuristi, queste cose, le sanno. Dovrebbero anche dirle, in maniera chiara e comprensibile perché non accada che talvolta vengano scambiati per semplici comizianti.

Dott. Gustavo Cioppa
Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2022/01/11/la-costituzione-e-un-pezzo-di-carta/

La pena non basta: serve una seria riabilitazione del reo

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“Credo che il carcere debba essere un luogo di rieducazione e avere, dunque, le caratteristiche delle istituzioni educative, attente a tirar fuori dallo studente ogni elemento che gli permetta di diventare più utile alla società”
(V. Andreoli)

Purtroppo sempre più spesso, i media riportano fatti di cronaca nera che per la loro modalità di esecuzione richiedono l’attivazione di un procedimento penale. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza che nel tempo si sta diffondendo sempre più il cosiddetto “processo mediatico”, che ha origine nella valutazione del fatto da parte di un non addetto ai lavori e che si contrappone al reale processo che si svolge nell’aula di giustizia.
Questo implica, anche a causa della cultura filo-punitiva sempre più diffusa, che troppo spesso l’opinione pubblica propenda per un giudizio negativo, quasi una presunzione di colpevolezza, e per la conseguente irrogazione della pena nei confronti dell’imputato, ancor prima che vi sia stata la pronuncia della sentenza.
Il problema è legato, a ben vedere, ad una mancanza di comprensione della funzione della pena e della sua utilità nei confronti dei soggetti. Per questa ragione è opportuno soffermarsi a riflettere su cosa sia l’istituto della pena, anche in rapporto alle situazioni criminali che interessano maggiormente il nostro territorio nazionale.

Lo scopo che si persegue nell’ irrogare una pena

In questo contesto è opportuno domandarsi quale sia lo scopo che si persegue nell’ irrogare una pena e, soprattutto, “in primis”, capire che cosa sia la pena. Forse quest’ultima sembrerà una domanda banale, perché fin da quando siamo piccoli pensiamo alla pena come la conseguenza della violazione di una regola (intesa, qui, nella sua accezione più ampia). Ma, forse, per capire meglio il suo significato più profondo possiamo leggere le parole che Cesare Beccaria ha usato nella sua opera Dei Delitti e delle Pene: “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.”
Si inizia a intravedere che cosa? Che già un illuminista come Beccaria ha lasciato quella vecchia e vetusta idea che la pena sia un castigo, a fronte di una infrazione, la retribuzione rispetto ad un male arrecato, e asserisce che la stessa deve essere intesa come un monito, volto a far sì che il reo non compia più il reato e induca gli altri a non commetterne (effetto deterrente) e, conseguentemente, anche la collettività sia preservata da ulteriori conseguenze.
Dal 1948 queste ideologie sono state sovrastate dalla funzione rieducativa della pena. I nostri Padri Costituenti, ben consci dei fenomeni sociali, hanno compreso che lo scopo principale della giustizia deve essere quello di rieducare coloro che hanno commesso reati.
Proprio il principio della funzione rieducativa ha ispirato l’introduzione nel nostro ordinamento delle misure alternative alla detenzione, le quali, abituando il condannato alla vita di relazione, dovrebbero rendere più efficace l’opera di risocializzazione.

I  problemi legati alla esecuzione della pena

Attualmente, però, non si devono sottacere i problemi legati alla esecuzione della pena; ciò sia in relazione all’aspetto della Amministrazione della Giustizia sia alle strutture preposte alla rieducazione del reo. La macchina della giustizia, così viene denominata frequentemente dalle testate giornalistiche, è particolarmente lenta, in quanto non riesce a “smaltire” celermente tutto il carico giudiziario pendente e ciò implica che si produca il cosiddetto “arretrato”. L’effetto conseguente è che i procedimenti si concludano dopo un periodo molto lungo ed è, quindi, legittimo chiedersi se la rieducazione di colui che è condannato possa essere “reale”, dopo anni dalla commissione del reato.
Problematico è, anche, il processo di esecuzione della pena. In particolare, mi riferisco, infatti, alle strutture adibite all’espiazione, troppo spesso insufficienti e, perciò, limitanti rispetto al conseguimento delle attività rieducative. Il sovraffollamento carcerario, in quest’ottica, è un fenomeno paradigmatico.
La mancanza di strutture ricettive esterne al carcere, siano esse strutture di housing, comunità o altro incide negativamente sulla possibilità di elaborare percorsi rieducativi che possano cominciare a contribuire al superamento dell’endemico, o quantomeno ciclico, sovraffollamento carcerario.
In definitiva, facendo un bilanciamento di questa breve riflessione, ritengo che sia necessaria una svolta di paradigma culturale, in modo tale che si comprenda la funzione fondamentale della comminazione della pena: la rieducazione del reo nell’ottica del suo reinserimento all’interno della società civile. È necessario, quindi, rifuggire da qualsivoglia ideologia di politica criminale che promuova delle concezioni per le quali la punizione è “fine a se stessa”. D’altronde, è la stessa comunità che ha bisogno che tutti i suoi consociati siano in grado di comprendere l’importanza delle regole, nonché di dare il proprio contributo alla società.

La capacità di non reitare le condotte illecite 

È necessario considerare, da ultimo, che il soggetto – dopo aver espiato la pena detentiva – deve essere capace di non reiterare le condotte illecite, giacché qualsiasi reato cagiona gravissimi danni sociali ed economici. Si pensi, ad esempio, alle rapine, ai furti in appartamento, alle violenze sessuali e ai tanti reati che vengono commessi nella quotidianità e che danno a ognuno una percezione di paura che si ripercuote nelle tante azioni che compiamo nella vita di tutti i giorni. Si consideri, anche, l’impossibilità di frequentare alcuni quartieri e, addirittura, le strade dei centri cittadini al di fuori di determinate fasce orarie. Quando si rientra a casa, luogo che dovrebbe considerarsi sicuro, alcuni sono costretti a barricarsi perché tante volte c’è la preoccupazione che ci sia una “mano profana” pronta e in agguato per entrare nella nostra casa, che mette a rischio non solo i nostri beni, ma – soprattutto – le nostre stesse vite.
Sarebbe auspicabile che le case non diventassero fortini, ma luoghi in cui si possa – dopo una giornata di lavoro – rilassarsi senza alcuna preoccupazione. Sarebbe auspicabile per una donna passeggiare in un giardino senza la paura di essere violentata. Sarebbe auspicabile per un giovane studente avere in mano un cellulare, o al polso un orologio, e non avere il timore di rischiare di essere rapinato o, peggio ancora, ferito. Sarebbe auspicabile poter rispondere tranquillamente a qualsiasi numero telefonico senza il pensiero di imbattersi in un truffatore. Sarebbe auspicabile salire su un autobus e non aver paura di essere derubati. Sarebbe auspicabile poter ritornare a casa da lavoro in metropolitana, anche a ora tarda, senza l’angoscia di essere aggrediti. Ecco perché oggi più che mai si sente la necessità di far sì che il processo rieducativo, a seguito della comminazione della pena, sia efficace e riesca ad incidere concretamente sulla personalità del reo. Difatti è fuor di dubbio che solamente in una comunità nella quale tutti si prodigano al rispetto del prossimo e delle regole del vivere civile si può auspicare che i singoli individui non abbiano più timore di svolgere le usuali attività che sono, in fondo, la ricchezza della vita.
Per raggiungere questo obiettivo sono certamente lodevoli le iniziative di rieducazione extra – muraria, tutte di particolare efficacia e fra esse voglio citare – in quanto ho seguito da vicino la vicenda – quella di Maria Luisa Iavarone che , dopo il ferimento del figlio Arturo da parte di una “baby – gang “ a Napoli, ha deciso attraverso un vero e proprio capovolgimento dell’angolo di visuale di costituire la associazione “Artur” per accompagnare tanti giovani in un percorso rieducativo, avente alla base delle strutture operative capaci di instillare dei sani valori, quali: la cultura, l’arte, l’insegnamento di un mestiere, nonché tanti laboratori per promuovere la via della legalità e progetti di vita che, nel rispetto delle attitudini e preferenze personali, siano incanalati nei binari della legalità e dei valori costituzionali.

Dott. Gustavo Cioppa

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2021/11/28/la-pena-non-basta-serve-una-seria-riabilitazione-del-reo/

Il coraggio delle cicatrici

Come tutti sappiamo, esistono le “sentinelle” della Camorra: ognuno di noi, per contro, dovrebbe essere sentinella della legalità e ciò significa che quando si verificano episodi gravi, come quello di cui abbiamo parlato, non dobbiamo girarci dall’altra parte ed essere testimoni muti. Maria Luisa tiene vivo il ricordo, in modo che non si dimentichi quanto è successo ad Arturo, giacché non possiamo “abbassare la guardia”. Dobbiamo sempre rimanere attenti e consapevoli e non si può rimanere inerti dinnanzi a situazioni come quelle che sono descritte nel libro. Maria Luisa ci insegna che il muro di omertà si può e si deve rompere; solo in questo modo si potrà estirpare il male che affligge la nostra società.

Autofagia: l’umanità che inghiotte se stessa

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

C’è un fantasma che aleggia, sempre più sinistramente, sull’intera umanità: è lo stravolgimento climatico globale, che comporta non già una minaccia, bensì la reale prospettiva, tutt’altro che lontana, di una catastrofe per il genere umano. E il dramma è che l’attuale situazione è frutto di una “actio hominum”, cioè della condotta dell’umanità stessa, il cui impatto sul pianeta terra risulta sempre più pernicioso ed esiziale.
Si delinea, così, una sorta di morte per autofagía, con l’immagine di una umanità che inghiotte se stessa. Se ne fa un gran parlare, senza effettivo costrutto, giacché le misure per invertire la tendenza sono ben lontane dai deboli – talora goffi – tentativi di intervento, in atto o in potenza, fin qui presi in esame. E, dunque, la realtà effettiva di oggi assomiglia a quella del senato romano, che seguitava a discutere, mentre il nemico era alle porte: “dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, scrive l’illustre storico con icastica espressione.
Cosa c’è, allora, di così terribile, da proiettare all’orizzonte uno scenario apocalittico? Ebbene, si è registrata, in Siberia settentrionale, una temperatura di 40 gradi, circostanza – mai accaduta – che si sarebbe definita impossibile, se non si fosse verificata. Imponenti incendi distruttivi hanno riguardato, spesso contemporaneamente, più punti di diversi continenti, dall’Europa all’America, all’Oceania. Il livello dei mari continua a salire in modo ingravescente e gli esperti avvertono che così, stanti e seguitanti le  cose, la prospettiva è quella di una erosione dalle coste tale da distruggere tutte le metropoli che si affacciano sul mare. I ghiacci ed i ghiacciai si stanno riducendo con velocità crescente, tanto da prefigurare un Polo Nord sull’acqua, posto che l’Artide, a differenza dell’Antartide, non ha una piattaforma continentale. E si potrebbe continuare nella enumerazione di fattori, che, da soli, sono in grado di avere effetti letali.
Non è, pertanto, eccessiva l’immagine di un quinto cavaliere dell’Apocalisse, ben più letale e definitivo degli altri quattro, che prefigura una catastrofe globale, un “armageddon” per l’umanità.
Giova, del resto, riflettere sul fatto che, in tutto il sistema solare, non appaiono esserci forme di vita nel senso da noi inteso. Ciò significa che la vita sul pianeta terra costituisce una assoluta eccezione, frutto di eccezionale combinazione di elementi, il cui concorso ha creato le condizioni per la vita. Così, la prosecuzione di tale stato non può che essere in funzione della persistenza e, soprattutto, dell’equilibrio – fragile – di tali innumerevoli fattori. Ebbene, l’uomo, nell’ultimo secolo, con progressione fortemente crescente, ha pesantemente – ed assai negativamente – influito su diversi di tali fattori: e ciò, in termini tali, da minacciare concretamente l’equilibrio succitato.
Per una correzione di rotta nel complesso delle attività umane a livello globale è già troppo tardi oggi? Lo era già ieri. Non ha molto senso perdersi dietro domande di genere siffatto. Certo è che la situazione è grave e che la posta in palio è, in assoluto, la più importante che mente umana possa immaginare. Se continueranno a protrarsi ciechi egoismi – e relative condotte – di popoli e nazioni, allora la sorte sarà segnata e l’autofagia dell’umanità sarà compiuta.
La crisi in atto, tuttavia, può trasformarsi in una grande opportunità: può consentire, cioè, di raggiungere l’obiettivo di salvare il pianeta e le persone dalla distruzione e, allo stesso tempo, di creare nuove risorse in grado di imprimere una spinta all’economia, innovando altresì le strutture sociali ormai incrostate d’antico. Dobbiamo reagire. Dobbiamo, in altri termini, smettere di accedere a risorse in via di esaurimento e rivolgere la nostra attenzione a energie rinnovabili, costruendo un’economia fondata su un circolo virtuoso nel quale addirittura i rifiuti possono diventare una risorsa decisiva per il benessere di tutti noi. A margine di questo, dobbiamo intuire e assecondare le grandi revisioni della società, adottando modelli anch’essi sostenibili e, inevitabilmente, più giusti.

Dott. Gustavo Cioppa,

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: http://www.ilticino.it/2021/09/20/autofagia-lumanita-che-inghiotte-se-stessa/

Ladri di anime

“Sì, sono un ladro di pensieri | ma non un ladro d’anime, prego”11 Outlined Epitaphs – Bob Dylan

La frase del noto cantautore e premio Nobel alla letteratura, Bob Dylan, è fuor di dubbio un punto d’inizio interessante per parlare di chi siano e cosa facciano i ladri di anime. Già da una prima lettura della citazione, l’artista pone un punto fermo sulla negatività legata al ladro di anime che – come viene ben sottolineato – è un altro concetto rispetto al ladro di pensieri, che si limita unicamente a “rubare” le idee altrui.

L’obiettivo del ladro di anime è la gratificazione dei propri bisogni, nella maggior parte dei casi a spese degli altri. Apparentemente si mostra come una persona carismatica, premurosa, rispettabile, ma in verità è molto abile nel suo agire. Inizialmente finge che tutto vada molto bene, salvo poi boicottare le azioni della vittima in forma sottile e in maniera apparentemente ingenua. Trasferisce la propria negatività sulla vittima, mostra le proprie qualità apparenti e induce l’altro a credere che se le cose non vanno è solo per sua colpa.

Il ladro attribuisce agli altri delle responsabilità e i suoi problemi sono sempre più importanti di quelli della sua vittima. Qualora quest’ultima glielo faccia notare, verrà presto accusata di egoismo.

Nel tempo la vittima, senza che se ne renda conto, si troverà sempre più sola. Progressivamente e in maniera ingannevole e infida verrà allontanata dalle persone più care, poiché sono proprio loro che possono distogliere la vittima dall’influenza negativa del ladro. Quest’ultimo, proprio per appropriarsi della personalità altrui, mette in discussione i principi, i valori e la morale sui quali si poggia il “modus vivendi” della vittima, la quale – scoprendo i propri punti più deboli – sarà facilmente ricattabile.

Passando al “modus operandi”, il ladro non affronta quasi mai in via diretta le discussioni, ma tende a scansarle, in modo tale da far sembrare sempre tutto normale. A ciò si deve aggiungere che il ladro è dedito a delle pratiche non trasparenti, volte a trasporre la propria volontà nella vittima. In altre parole, la parte debole del rapporto è in una situazione di passività che la induce a far ottenere al ladro tutto ciò che vuole, senza opporre alcuna resistenza.

Come si può notare è molto difficile riuscire a liberarsi dall’invadenza del ladro, ma per non cadere continuamente nella trappola è bene capire cosa spinge (inconsciamente) a dare a queste persone tutto questo potere. Si consideri, ad esempio, il partner dominante che in genere assume un comportamento aggressivo prevalentemente verbale: tende a monopolizzare le scelte quotidiane, annichilendo l’arbitrio dell’altro. In questo modo tende a totalizzare la propria visione e non concede alcuno spazio di autonomia all’altra persona. Molto spesso, poi, il predominio sfocia in comportamenti aggressivi nei confronti degli altri, finanche con l’assunzione di comportamenti cinici e sprezzanti in relazione ai sentimenti e alle sofferenze altrui.

anime

Sono degli artisti del raggiro. Non sono individui timidi, insicuri e a corto di parole, ma hanno difficoltà a gestire il confronto diretto. Hanno quasi sempre la tendenza a arrogarsi il diritto di occupare determinate posizioni e di “possedere” le persone, esercitando un sistematico controllo su di loro.

Tendono a ritenere che le proprie opinioni siano la verità assoluta e disprezzano, il più delle volte in maniera indiretta, cioè alle spalle, le idee degli altri. Non provano rimorsi e sono indifferenti al ferire e maltrattare gli altri. Anzi, in mancanza di reazioni, provano piacere perché in tal modo è comprovata la loro predominanza rispetto alla vittima. Per raggiungere questo scopo sfruttano, raggirano e manipolano le persone, le quali ai loro occhi rappresentano quasi degli “oggetti”. Nei casi più gravi gli atteggiamenti appena descritti possono tramutarsi nella violenza fisica contro la vittima inerte.

Per liberarsi dal ladro la vittima deve accettare che è una persona, ente o struttura, per lei importante, in cui ha riposto la propria fiducia, che è stata tradita dal suo comportamento subdolo e pervasivo. In questo contesto, può certamente aiutare il confronto col ladro poiché solitamente parla in termini generalisti. La vittima che non vuole più essere tale deve tentare di indurlo a formulare delle considerazioni personalizzate.

Se abbiamo basi solide contro l’idea che ci viene proposta, dobbiamo allora esprimere ad alta voce il nostro dissenso. A livello individuale anche con un graduale abbandono del rapporto (malato). Invece a livello collettivo, utilizzando gruppi di condivisione e adottando tutti i mezzi a nostra disposizione (radio, tv, social, manifesti, et similia). In quest’ultimo caso dovremo avere un comunicatore (sportivo, cantante, politico, attore, ente benefico, etc.) con una immagine etica riconosciuta e rassicurante.

Numerosi approfondimenti di psicologia delineano il profilo del “vampiro energetico” (che tanto ricorda quello del “ladro di anime”) come colui che risucchia l’energia vitale dell’altro per poter sopravvivere.

Ora, senza addentrarsi nelle molteplici caratteristiche di tali profili psicologici, è tuttavia certo che per non cadere o restare vittima di tali vampiri, è imprescindibile rafforzare la sicurezza in se stessiperseguire i propri obiettivi – spesso contrastanti con quelli dei vampiri – ed avere fiducia nella propria forza e nella propria persona.

Si possono sconfiggere o eventualmente aiutare questi parassiti solo dando loro il buon esempio e comportandosi con sincerità e determinazione. Al limite, basta ignorarli.

Gustavo Cioppa

Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia.

Fonte: https://www.ilvaloreitaliano.it/ladri-di-anime/

Incontri ravvicinati

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Homines inter se loquentes, “Homo faber fortunae suae”.

Ripensando ad un passo delle Sententiae di Appio Claudio Cieco, mi è occorso di riflettere su una delle questioni ricorrenti della quotidianità contemporanea: il dualismo fra la realtà concreta e quella virtuale. E’ fuor di dubbio che, negli ultimi anni, gli strumenti informatici abbiano canalizzato una enorme moltitudine di interlocuzioni d’ogni genere: dibattiti, scambi di opinioni, contrapposizioni, polemiche. E’ evidente che il mezzo digitale ha fatto da moltiplicatore ed amplificatore.

E, d’altronde, comunicare per via postale o anche telefonica non regge minimamente il confronto con lo strumento telematico, che ha aperto, per così dire, vere e proprie praterie alla comunicazione globale. Il rovescio della medaglia è costituito da ciò che si presenta, ontologicamente, come “l’apparente“, ossia uno scenario che mostra l’utente non per quello che realmente è, ma per come si descrive e per come il soggetto desidera percepire l’interlocutore.

Nè va taciuto che sovente i messaggi a destinatari plurimi, proprio in quanto tali, producono una sorta di effettiva spersonalizzazione. Per quanto paradossale possa sembrare, a fronte di una sensazione di apparente socializzazione, può in concreto verificarsi un senso di solitudine, scaturente da una comunicazione fraintesa ovvero fraintendibile, in ultima analisi, fallace. In buona sostanza, incombe il pericolo di una immagine deformata della personalità, che passa attraverso messaggi effimeri, incapaci di comunicare una gioia, un dolore, più in generale, un’emozione.

In contrapposizione, l’incontro “reale” è un “quid” ineliminabile per la comunicazione e la percezione di un sentimento, di un’emozione, di un convincimento profondamente autentici, i quali derivano sempre da un confronto personalizzato, connotato da informazioni che richiedono la “praesentia” per dispiegare tutto il loro significato.

Ciò posto, è innegabile che lo sviluppo dei sistemi digitali ha portato, in pochi anni, benefici incommensurabili ed ha veramente semplificato la vita in molteplici settori, annullando totalmente le distanze a livello mondiale. E, per evocare un fenomeno globale tuttora in corso, ossia la pandemia virale, è straordinario l’ausilio apportato dal digitale nel funzionamento delle scuole, delle Università, di tutte le attività, che non impongono la presenza.

I social network e il fenomeno degli ‘influencer’

Qualche utile riflessione si può svolgere con riferimento ai social network, che permettono di interloquire con un ingente numero di soggetti e magari di “ritrovare” vecchi amici, allontanati dallo scorrere degli anni. Un beneficio, di proporzioni che si vorrebbe definire epiche, è rappresentato dalla possibilità di “navigare” sulle varie piattaforme di Internet. E qui il discorso va adeguatamente articolato. Ci troviamo di fronte ad uno strumento che “facit de nigro album“, giacché mette a disposizione di chiunque un preziosissimo contenuto di conoscenze, che permettono di migliorare la vita e di crescere culturalmente.

In siffatto contesto, peraltro, merita attenzione il fenomeno dei cosiddetti “influencer“. Si tratta di soggetti, o gruppi di soggetti, che, attraverso i “social network” comunicano con un numero indefinito di utenti, elargendo consigli sullo stile di vita, su banali comportamenti quotidiani atti a diventare, poi, più o meno, insensati esempi da seguire. Ebbene, non è disagevole notare come si corra il rischio di rinunciare a pensare e riflettere con la propria mente e di sviluppare dipendenza da un sistema che porta ad accettare passivamente e acriticamente determinati suggerimenti, quando non vere e proprie scelte di modus vivendi, “consigliate” da soggetti sconosciuti: scelte che possono essere il frutto di interessi economici, finanziari e quant’altro, con buona pace del libero arbitrio. 

Corsi scolastici per un uso consapevole del web

Senza ombra di dubbio, allora, non bisogna sottovalutare il fenomeno ed occorre porvi concreta attenzione, in particolare concentrando l’attenzione a tutela dei più giovani – utilizzatori continui e facilmente suggestionabili – e dei soggetti più deboli. E’ auspicabile che la società e soprattutto la scuola spronino a un utilizzo virtuoso dello strumento telematico. E non sarebbe fuor d’opera pensare ad una vera e propria materia di insegnamento, che facesse apprendere l’uso materialmente corretto del computer, ma anche i pericoli che si annidano in esso.

L’uomo che non possa o non sappia governare le macchine evoca scenari orwelliani assai inquietanti: l’umanità deve procedere nella sua evoluzione arricchita dall’apporto e dal sagace uso di esse.

Dott. Gustavo Cioppa,

Magistrato già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilvaloreitaliano.it/il-dualismo-tra-realta-concreta-e-virtuale/

Giacomo Leopardi: “E tutto partì da una finestra sull’infinito”

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

La poesia di Giacomo Leopardi è poesia della poesia: “Lacrimae rerum”    per dirla con Virgilio. Lo sguardo da poeta è sempre umido di lacrime, compassionevole, solidale, partecipe della sofferenza cosmica. Sguardo empatico: “moto fuori di sé, in tutte le cose” (Paul Valery), una cosa sola con la carne del mondo. Leggendo lo “Zibaldone dei pensieri”, in ogni frammento percepiamo la compassione nei confronti del fratello che soffre, sia che si tratti di una persona che di un animale; la compassione verso sé in quanto essere sofferente, mancante, mortale. E sempre nello Zibaldone ritroviamo l’accettazione consapevole, e perciò ragionata (Leopardi è sommo poeta e sommo filosofo), del dolore della vita che però si ribalta in “Amor fati”. A tale proposito basti rileggere i frammenti n. 259 – 260: “Hanno questo di proprio le opere di genio, che, anche quando rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e ‘mortifere’ disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa), servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo ; e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta”. I frammenti 259-260, pertanto, ribaltano il pensiero (erroneo, riduttivo) della critica imperante nel Novecento, che ha visto nell’opera di Leopardi nient’altro che l’esemplificazione del pessimismo. No, Leopardi non è un pessimista. Egli è, semmai, un realista. E sempre lo “Zibaldone dei pensieri” anticipa quello scrivere per frammenti che costituisce la forma letteraria del Novecento. Lo Zibaldone prefigura nella forma, nel contenuto, nel sentire un libro emblema della tonalità emotiva e del dramma del Novecento. Si tratta del “Libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa. Il frammento, anticipato, profetizzato nello Zibaldone di Giacomo Leopardi si qualificherà nel XX e nel XXI secolo – essendo tutto irrimediabilmente de- strutturato, de-flagrato, liquido – come forma privilegiata.
Nell’aeropago dei grandissimi poeti la stella di Leopardi seguita e seguiterà a splendere, come Sirio in una notte magica dall’aria sovranamente trasparente.

Dott. Gustavo Cioppa

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: http://www.ilticino.it/2021/06/27/giacomo-leopardi-e-tutto-parti-da-una-finestra-sullinfinito/

L’eccezione non può essere la regola

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

La Fiducia (nella mitologia era una dea più vecchia di Zeus) è un sentimento dal quale nessuno può prescindere. Anche tutti quelli che di fiducia non ne hanno più nei confronti dell’altro da sé, delle istituzioni e della scienza. La fiducia è un riconoscimento dell’affidabilità dell’ ”altro” intrinseca all’interno degli ordinamenti giuridici, già dai tempi dei Romani. In quest’ottica sono certamente rappresentativi l’istituto della fiducia “cum amico” e quello della fiducia “cum creditore”. Volgendo l’attenzione sul primo istituto menzionato, si è dinanzi ad un trasferimento patrimoniale nei confronti di un terzo che, dopo aver ottenuto la proprietà “ex iure Quiritium”, si obbliga a ritrasferire la res al fiduciante. Questo istituto è la “cartina tornasole” dell’importanza che ha contraddistinto la fiducia nel mondo antico.
Il patto non detto ma implicito, nella tecnologia che governa i computer, i treni ad alta velocità, il volo degli aeroplani nelle sue fasi critiche, è imprescindibile per ciascuno di noi e ci consente di continuare a vivere secondo le necessità del nostro tempo.
A volte però succedono fatti tragici, si pensi alla caduta della funivia del Mottarone e al crollo del Ponte Morandi, dovuti – da quanto risulta allo stato degli atti – alla faciloneria di chi doveva controllare, presidiare, proteggere, decidere, agire.
Siamo in un momento patologico di una diffusa sfiducia nelle istituzioni, nella scienza.
Questo sentimento deve essere combattuto e vinto dalla consapevolezza che le istituzioni, nonostante qualche caduta e qualche inciampo (si pensi alla crisi della magistratura), ci sono e costituiscono il nostro baluardo e punto di riferimento.
Eventi tragici come la caduta della funivia del Mottarone o del ponte Morandi ancorché siano il segno di una sempre più frequente e generalizzata superficialità nel nostro paese, non devono infrangere la fiducia nelle istituzioni fondamentali della nostra Repubblica, cui al contrario dobbiamo rivolgerci per chiedere ed ottenere.
Dobbiamo tutti avere la convinzione che questi eventi, le anomalie che abbiamo visto nella gestione della cosa pubblica o nell’attività della Magistratura, sono tutti fatti patologici e che il funzionamento fisiologico è sano ed immune da storture che costituiscono – e devono costituire – fatti eccezionali.
Il nostro imperativo categorico è che mai avvenga che l’eccezione diventi la regola.

La fiducia va conquistata e meritata

La fiducia… la fiducia non è fede incondizionata.
Essa va conquistata e meritata, con duro lavoro, coerenza, fatica. È un sentimento talmente difficile da provare che per infonderla è necessario sradicare ritrosie, esperienze negative, delusioni costanti inflitte da coloro in cui riponevamo la nostra speranza.
La fiducia, inoltre, non è per sempre. Per quanto faticosamente conquistata, è connotata da una congenita precarietà che la rende incerta, instabile, fragile. La fiducia è proiettata sul futuro, ma, per raggiungerlo, deve attraversare il presente. Il che non è mai facile.
Per assurdo, tempo fa, ai tempi d’oro, le storture del sistema erano un’eccezione.
Ora forse stanno diventando la regola.
Ed è in questi momenti che dall’astratto bisogna tornare al concreto. Dagli ideali (troppo spesso ormai smarriti) bisogna tornare alla forza delle idee.
Solo con l’esempio costante, coraggioso, sincero, se necessario anticonformista, potranno “le Istituzioni” rappresentare quel punto di riferimento di cui abbiamo tutti bisogno.
È drammatico il punto di partenza… preoccupante la strada da fare… pressoché impossibile la risalita nel cuore delle persone…
Eppure siamo ancora qui, a guardarci intorno, per cercare l’uomo giusto al posto giusto, per sentirci rassicurati e “fiduciosi” che riceveremo l’esempio giusto, seguiremo la giusta guida, e con difficoltà e grandi sacrifici miglioreremo il mondo dei nostri figli.
Stiamo cercando l’eccezione, le persone eccezionali, quelle che ormai non ci aspettiamo più di incontrare…
E dobbiamo cercarle a tutti i livelli, partendo dall’alto per arrivare ad ogni settore della nostra vita.
Perché queste persone ci sono, e sono tante, e la loro eccezionalità può e deve diventare la regola.

Dott. Gustavo Cioppa

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: http://www.ilticino.it/2021/06/01/leccezione-non-puo-essere-la-regola/

Intelligenza artificiale nelle nostre vite? “Adelante…con juicio”

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“Technè ad libitum si”? Oppure “Technè ad libitum no”? La risposta è certo affermativa, ma non libera da plurimi problemi di vario genere. Anzitutto la tecnologia può essere usata a totale beneficio dell’uomo, ma anche in “malam partem”. È nondimeno innegabile che tutta la storia dell’umanità sia stata scandita dal progresso della tecnologia che ha fornito una complementarità straordinaria all’uomo per la sua crescita di civiltà. È fin troppo agevole richiamare dai remoti confini del tempo l’avvento dell’aratro, della ruota e così via fino ai tempi nostri. E tuttavia, in special modo nei tempi a noi più vicini, si assiste ad un fenomeno che dovrebbe far riflettere: l’utilizzo delle macchine e di tutto ciò che è tecnologia rischia di prendere il sopravvento nell’economia delle attività umane. Nessuno ardirebbe negare che tutto l’apporto che ci viene dalla tecnica sia fondamentale per lo sviluppo delle attività umane. E di secolo in secolo, fino al nostro, si potrebbe definire stupefacente quello che le scoperte scientifiche e tecniche hanno arrecato alla storia dell’umanità.
La questione che si intende portare all’attenzione e che dovrebbe essere oggetto di riflessione consiste nel fatto che, con una velocità impressionante e con ingenti risultati in tutti i settori, la tecnologia si sta approssimando al lavoro degli uomini in guisa tale da far pensare a non pochi che giungerà il momento in cui essa potrà quasi totalmente sostituire l’uomo. Orbene è pensabile razionalmente una cosa simile? Si può davvero arrivare ad un mondo in cui l’uomo sia complementare rispetto alla macchina?
Ben si intende che sarebbe una rivoluzione ben più che copernicana, sarebbe uno capovolgimento rispetto al quale l’esistenza ed il mondo subirebbero un micidiale stravolgimento.
Varrà la pena, per una ricognizione pur breve dell’argomento, pensare, a mo’ d’esempio, alla vita attuale caratterizzata dall’uso sistematico di automobili sempre più sofisticate, delle macchine che caratterizzano la domotica familiare e le apparecchiature biomediche (specie quelle salva-vita), per rendersi conto che una mancanza di tali strumenti proietterebbe l’umanità indietro di diversi secoli Si deve, dunque, concludere che il progresso ha potuto supportarci in maniera formidabile in tutte le nostre attività; ne consegue che una visione, anche soltanto parziale, negativa sarebbe fuori luogo ed insostenibile.
Bisogna prendere atto che la volontà di migliorarsi e progredire è connaturata all’uomo, che proverà sempre ad evolversi anche sulla strada della creazione di apparati tecnici sempre più funzionali. E allora quale è il problema di fondo che si pone? Il governo del progresso in capo all’uomo.
Va ribadito che l’intelligenza artificiale ha rappresentato una delle maggiori conquiste degli ultimi tempi: una tecnologia con caratteristiche peculiari fra cui la possibilità di individuare alcune scelte. La tecnologia – ovvero il robot più raffinato – può arrivare a sostituire l’uomo? È difficile ipotizzare che i settori fondamentali dell’esistenza umana non possano non rimanere nel suo esclusivo potere decisionale. Un esempio, già accennato, è il settore sanitario in cui il pur straordinario supporto delle macchine non può alfine sostituire il giudizio dell’uomo, anche, per così dire, sotto il profilo etico, che è una caratteristica peculiare dell’essere umano, con una infinità di variabili e di soluzioni.
Ad esempio, con riguardo all’esperienza lavorativa dello scrivente, capita spesso di riflettere sulla possibilità di sostituire la figura del giudice con un programma capace di dirimere le controversie. E questo non è in alcun modo possibile, perché l’uomo ha una capacità di giudizio unica ed insostituibile. In altri termini è lo spirito umano che non può essere, tout court, sostituito dalla tecnologia, costituendo un ‘quid’ non replicabile.
In definitiva il progresso – fenomeno insito all’evoluzione umana – non può essere arrestato poiché, come ci insegna la storia del movimento luddista in Inghilterra, la macchina non deve essere considerata uno strumento da distruggere; il progresso, al contrario, dovrebbe essere il mezzo per consentire a tutti di vivere in modo dignitoso. Siffatta prospettiva ha come diretto corrispettivo la condanna di qualsiasi idea che si basi sulla sostituibilità dell’uomo. Quello che ci serve è una tecnologia che supporti e migliori la nostra capacità di prendere decisioni, senza mai che la macchina decida al posto nostro.
I robot dotati di intelligenza artificiale non potranno mai avere il requisito tipico dell’essere umano: i sentimenti. In conclusione nel futuro si potranno creare macchine perfette dal punto di visto tecnologico, mai si potrà donare loro un’anima, una spiritualità che resterà peculiare ed esclusiva caratteristica dell’agire umano. Riallacciandosi all’incipit di questa serie di riflessioni si può concludere con la nota metafora manzoniana “Adelante, Pedro, si puedes”.

Dott. Gustavo Cioppa,

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: http://www.ilticino.it/2021/05/17/intelligenza-artificiale-nelle-nostre-vite-adelante-con-juicio/