Una vita senza rispetto non è degna di essere vissuta

Rispetto, tutela e valorizzazione: un climax ascendente che sempre tiene fermo il ruolo centrale della persona umana quale cuore del sistema, al centro appunto, per così dire, dell’universo, ossia
dell’ordinamento giuridico e sociale, con particolare riferimento alla dimensione della vita pubblica. Un ruolo centrale, nel sistema etico, filosofico e giuridico che valorizza l’importanza dell’espressione e manifestazione della personalità umana trova piena comprova nei principi di solidarietà, altruismo e sussidiarietà orizzontale, sanciti nelle norme costituzionali (artt. 2, 3 e 118, ultimo comma, Costituzione).
La vita privata e quella pubblica, in fondo, rappresentano entrambe due convergenti prospettive
dimensionali di una medesima realtà. Chi infatti non rispetta le regole ed è infedele nel poco, lo sarà anche nel molto: è un messaggio di carattere universale quello, biblico, della parabola del servo infedele. E allora…come come comportarsi correttamente, per sopravvivere in un mondo certamente non facile, dove sono molti coloro che vogliono farci del male e pochi coloro che possiamo davvero definire amici? Usando rispetto, tutela e valorizzazione. E allora, si potrebbe pensare…bisogna ragionare nell’ottica di porgere l’altra guancia? Non esattamente: si deve…rispettare la legge, adempiere alla propria legge morale, che ha natura non solo individuale ma anche collettiva…creare una linea di difesa, rappresentata dai valori del vivere civile e del rispetto. Il rispetto appunto: rispetto delle leggi, della persona, dell’altrui sfera personale e giuridica, ma anche di quei principi etici e giuridici che regolano i rapporti della società civile: correttezza, buona fede e leale collaborazione.
Ma…è sufficiente? No. Indispensabile è parimenti la tutela dei diritti – il libro sesto del codice civile
non a caso si intitola così – a chiudere come l’alfa e l’omega quel sistema in realtà generale, che,
partendo dalla sua genesi (la capacità giuridica), perviene al suo apice più elevato, con il sistema delle obbligazioni. Ecco una parola chiave: l’obbligazione. Obbligazione che noi abbiamo non solo nel momento in cui stipuliamo una compravendita con Tizio o una locazione con Caio, ma, più in
generale e prima di tutto, quando noi veniamo al mondo e siamo chiamati a relazionarci a un tempo con noi stessi e con l’ordinamento globalmente considerato. La tutela allora rappresenta una convinzione attiva, che si aggiunge alla mera convinzione passiva (il rispetto) e la completa. Così, la valorizzazione rappresenta l’apice di questa parabola. Tutela e valorizzazione dunque del territorio, del paesaggio, dei beni culturali…ma anche delle persone che sono protagoniste di questo territorio…valorizzazione della persona umana in primis…singolarmente e nelle forme associative in cui si esplica la sua personalità (art. 118, ultimo comma, Costituzione: lo Stato che appunto, come Stato comunità, ha questo compito). Le relazioni umane, quali forme etiche di valorizzazione dei valori (l’alliterazione è rafforzativa e rende il senso della necessità indispensabile di ravvivare ogni giorno il senso e la natura dei valori fondanti della società civile) si traducono allora non in un semplice vivere, ma in un “vivere al quadrato” e quindi in un “esistere”, in un “esserci”. Cosa diversa è infatti limitarsi a vivere, pensando ai bisogni primari ed esclusivamente in chiave egoistica, rispetto all’ ”esistere”, ossia all’esserci per gli altri, per il prossimo, come bene è testimoniato dalla distinzione, nella lingua tedesca, tra i verbi “sein” (“essere”) e “sollen” (“dover essere, essere in senso morale”).
Il rispetto, la tutela e la valorizzazione costituiscono in primo luogo, allora, tre concetti etici e sociali intimamente legati e connessi, concetti se vogliamo anche poetici, letterari e filosofici. In effetti, il rispetto implica il “non tangere” la sfera altrui e, se violato, quel comportamento in violazione si traduce in un abuso, in un abuso del diritto, in una forma di tracotanza, nel superamento di un sacro “themenos”, dell’intimità personale, dello spirito, della propria natura, della propria anima (letteralmente, dal greco, “recinto”, “solco”, “soglia”) la cui infrazione comporta la configurabilità di una (giuridica ed etica) violazione di domicilio. Ecco allora qualche caso storico…come l’episodio, narrato da Erodoto, nel quale il re di Persia Serse fece fustigare i Dardanelli per la sconfitta militare subita, oltraggiando gli dei e dunque quel senso metafisico di misura nelle cose…o, ancora…il caso di don Rodrigo, che, come narra il Manzoni, voleva a tutti i costi costringere Lucia a sposarsi con lui, anche ricorrendo alla violenza e dunque violando il sacro themenos dell’amore. Ecco allora il bisogno di tutela della persona oltraggiata, della persona offesa, la cui testimonianza, se ritenuta credibile, può essa stessa sola fondare la motivazione di una sentenza di condanna. Ecco allora che sempre i bisognosi, gli indifesi e gli oltraggiati (è il caso di Lucia nei Promessi Sposi, ma anche delle molte donne donne vittime di stalking, di violenze e di lesioni, come lo sfregio del viso con l’acido, da parte di uomini violenti e inadeguati). E dunque, la valorizzazione, la valorizzazione del bene giuridico e della persona, persona e bene giuridico al centro dell’intero ordinamento, non solo penale, ma anche,
in primis, costituzionale e sovranazionale (si pensi alla Convenzione di New York sui diritti del
fanciullo e sulla Convenzione di Istanbul, solo per citare le più note). Quella valorizzazione della
persona umana così posta in risalto nel testo letterale dell’art. 2 Cost. costituisce allora la cifra di una sempre eterna e incessante dialettica tra etica e diritto. Il diritto allora è proprio questo: cura del bene, del buono e del giusto, non potendo prescindere dall’etica né farne a meno, viceversa risultando incomprensibile.

tratto da: https://www.ilticino.it/2024/12/21/una-vita-senza-rispetto-non-e-degna-di-essere-vissuta

Un nuovo inizio o l’inizio della fine? 

A quanto sembra, l’intelligenza artificiale si sta evolvendo assai rapidamente, molto più velocemente di quanto non possa fare l’essere umano. Lo scorso anno Open AI aveva lanciato l’ultima grande innovazione nel campo dell’intelligenza artificiale, aumentando le dimensioni dei suoi modelli fino a proporzioni vertiginose, con GPT-4. L’azienda, più recentemente, ha annunciato un nuovo passo avanti: la creazione di un modello dalle dimensioni maggiori, capace di ragionare in modo autonomo, non solo rispondendo a domande dirette fatte da un utente, ma anche di risolvere problemi di logica complessi, del tipo: “Tizio ha l’età che Caio avrà quando Tizio avrà il doppio dell’età che Caio aveva quando l’età di Tizio era la metà della somma delle loro età attuali. Qual è l’età di Tizio e quella di Caio?”. Come è intuibile, questa nuova forma di intelligenza artificiale, pur sapendo risolvere problemi di logica complessi, sembra non in grado di affrontare con maturità intellettuale problemi di natura etica, giuridica, sociale e filosofica, come meglio si dirà. La contemporanea creazione di androidi capaci di pensare da soli ed elaborare autonomamente dei sentimenti, porta inoltre a rilevantissimi interrogativi, come, ad esempio, se la natura di questi sentimenti sia equivalente a quella umana e in che modo si possa attribuire il carattere della proprietà, per così dire della “suitas”, a una creatura artificiale, cioè priva di anima. In altre parole, viene ora messa in crisi la tradizione che, con Socrate e Platone (ma probabilmente, secondo alcuni, già con Omero, che nell’Iliade fa uso del termine “pshykè” forse intendendolo non come mero spirito vitale ma come qualcosa di metafisico) ravvisava la peculiarità dell’essere umano nella presenza, in un corpo, di un’anima, di qualcosa cioè che elevava questo da tutti gli altri esseri viventi. Il tema è peraltro quello della (non) prevedibilità delle conseguenze di tale ipervelocizzazione dei processi e di questa capacità delle forme di intelligenza artificiale di evolversi da sé. Il rischio è infatti che all’uomo possa sfuggire il controllo su queste forme di intelligenza ormai, inutile dirlo, superiori. Vi è allora il pericolo che la creatura, resasi conto di possedere facoltà intellettuali superiori a quelle del creatore, si ribelli ad esso, reclamando il predominio sul pianeta e, potenzialmente, riducendo in schiavitù il suo artefice o uccidendolo, come spesso ci viene rammostrato nei film fantascientifici. Il grave pericolo cui si va incontro è quello allora, vieppiù, della distruzione dell’intero pianeta, per mano peraltro di una creazione umana. Si devono comunque fare delle precisazioni su cosa si debba intendere per capacità di questa nuova intelligenza artificiale di “pensare da sola”. Infatti, l’assunto è predicabile con riferimento a problemi di logica, di logica matematica, di logica fisica, o comunque di quesiti che sottendano un quadro matematicamente predeterminabile. Più difficile è l’attribuzione del predicato nel caso di questioni etiche, psicologiche e filosofiche, le quali, stante il loro carattere “letterario” e prettamente umano, difficilmente appaiono risolvibili da un’entità che ragiona secondo schemi certi e predeterminati. Così, ci si può chiedere come siano definibili da un androide le nozioni di “bene” e di “male”, come sia da esso concepibile il ruolo della filosofia e come siano spiegabili gesti di altruismo e solidarietà, che sono per definizione non predeterminabili e non rispondenti a criteri di utilità materiale. In tal senso, occorre ancora interrogarsi su questioni complementari, come, ad esempio, come questa creatura possa elaborare le nozioni di piacere e di dolore, se possa percepire ansia per l’approssimarsi della sua fine e se, essendone a conoscenza, cercherebbe di evitarla o la accetterebbe come dato ineludibile, se sia concepibile, nella sua mente, compiere atti che danno piacere ma svantaggiosi economicamente, come ad esempio praticare sport, andare al cinema, al teatro o in discoteca, sposarsi e avere figli. Ci si deve inoltre chiedere, come accennato, se questa forma di intelligenza sarebbe in grado, ad esempio, di fornire risposte a quesiti di natura filosofica o giuridica, come il significato di “giustizia”, la natura giuridica della risoluzione del contratto o della mora del creditore o del debitore o se sia ammissibile l’incerta figura civilistica dell’autorizzazione
o, ancora, se sia ammissibile la, parimenti incerta ipotesi, del mandato ad alienare, o, ancora, una delle questioni più complesse in campo filosofico: se la natura dell’essere umano sia buona (Locke, Terenzio) o, viceversa, malvagia (Hobbes, Plauto). Si può dubitare inoltre che questa forma di intelligenza, per quanto raffinata, possa per sua volontà scrivere delle poesie, dei trattati giuridici o filosofici, dei romanzi, oppure mettersi a pregare e ad andare in chiesa. Certamente, la coscienza è cosa diversa dalla capacità di pensare in modo autonomo. Sembra, insomma, che questa forma di intelligenza artificiale resti appunto, pur sempre, artificiale, e dunque incapace di essere “creatrice”, “poetica”, “filosofica” e “metafisica”. Sembra insomma che essa si palesi quale un grande e potente drago che tuttavia è incapace di volare verso i cieli dell’iperuranio. I problemi centrali del caso in esame attengono proprio a questo: se siano predicabili gli attributi della coscienza e della volontà in capo a una forma di intelligenza non umana. Anche a voler fornire risposta positiva, resta comunque un dato ineludibile: che l’intelligenza, intesa come mera capacità di accumulo di nozioni e capacità, anche assai elevata, di ragionamento, è cosa diversa dalla ragione, ossia dall’intelletto orientato all’etica (S.Tommaso d’Aquino), al punto che, come è stato detto dalla filosofia tomistica e dalla teologia medioevale, in assenza di un’anima incorporata in una creatura terrena, nemmeno potrebbe parlarsi di ragionamento, nozione che affonda le sue radici in quella di “ragione” e non in quella di mera “intelligenza”. Inoltre, l’attributo della coscienza implica quello di categorie squisitamente metafisiche, quali quelle di “diligenza”, “senso etico”, “responsabilità” e “autoresponsabilità”. Chiaro è infatti che una coscienza priva di senso etico e di responsabilità sarà sempre una coscienza negativa e malvagia, nemmeno autonomamente concepibile come coscienza e ragione sotto il profilo filosofico, quanto piuttosto quale “non essere” e “carenza di bene”. Se non pochi problemi pone l’elemento della coscienza, non meno ne postula quello della volontà, specie in relazioni a grandi categorie giuridiche, che presuppongono al centro l’azione umana, come la causalità penalistica e quella civilistica. Ci si deve cioè chiedere se questa forma di intelligenza artificiale così evoluta e capace di ragionare da sé possa rispondere di un fatto di reato. Il confronto è allora da effettuarsi in relazione al duplice piano dell’imputabilità e della causalità, nonché, ulteriormente, a quello della colpevolezza. Sotto ad esempio il profilo dell’imputabilità, requisito imprescindibile per l’ascrizione di un fatto di reato, l’art. 85 secondo comma del codice penale sancisce che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Per quanto si è detto, la definizione di queste nozioni in capo all’AI appare assai problematica, poiché non è detto che, pur essendo ad essa tali attributi astrattamente predicabili, essi siano di identica natura di quelli ravvisabili in capo all’essere umano. Quanto al tema della causalità, si rende necessario un preliminare confronto con le teorie classiche che si sono formate sul tema. Così, secondo la teoria della condicio sine qua non e la teoria naturalistica, la risposta dovrebbe essere affermativa, poiché tale teoria considera rilevanti solo gli accadimenti del mondo naturale e materiale. Secondo, invece, la tesi della causalità umana (Antolisei), la risposta dovrebbe essere assolutamente negativa, poiché, secondo questa tesi, è rilevante solo ciò che è umanamente controllabile, che cioè rientra nella signoria causale dell’evento propria solo dell’essere umano. Più problematico appare l’inquadramento del problema nelle maglie della tesi della causalità adeguata, la quale considera rilevante quello che accade di regola nel mondo umano e naturale, serie causale di accadimenti che però sarà completamente diversa dalle regole di generalità e dalle massime di esperienza che governano il mondo robotico. Sotto il profilo della colpevolezza, si deve poi rilevare come sarebbe assai arduo predicare teorie distintive come la teoria psicologica e la teoria normativa della colpevolezza in capo a un’entità oggettiva e non propriamente qualificabile come “soggetto”, quale è l’androide, con conseguente problematica inferenza in capo all’intelligenza artificiale del divieto di imputazione per responsabilità oggettiva (su cui v. Corte Costituzionale sentenza n. 364/1988). Ancora più problematica risulta la configurabilità di un ipotesi di c.d. autore mediato, ossia di quell’ipotesi bene descritta dall’art. 48 del codice penale, secondo cui le disposizioni in tema di errore (art. 47 c.p.) si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno, con la previsione che “del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”. Appare cioè difficile declinare le nozioni di “errore” e “inganno” in relazione a un’ente che agisce secondo stimoli esterni o comunque caratterizzato da un intelletto con caratteristiche diverse da quello umano, posto che le norme penali sono state pensate in relazione all’intelletto umano, dovendosi, con riferimento all’AI, allora, riscriversi l’intero ordinamento (!). Resta peraltro rilevantissimo il problema della certa identificazione dell’autore nei reati informatici, come la truffa a mezzo di strumenti informatici e l’accesso abusivo a sistemi informatici. L’identificazione dell’autore, già complessa in caso di autore umano, si renderebbe ancora più difficoltosa, infatti, in ipotesi di loro causazione da parte di un androide, dietro il quale potrebbe celarsi una figura umana che abbia, in ipotesi, organizzato l’intero disegno criminoso. Si renderebbero inoltre necessaria l’adozione di nuove definizioni di “dolo”, “colpa”, “diligenza” e “negligenza”, oltre a una inevitabile riscrittura di tutte le laboriose sentenze elaborate circa, ad esempio, la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente e in tema di concorso esterno nel reato, sotto tale ultimo profilo risultando infatti pressochè impossibile l’accertamento giudiziale della presenza o meno dell’elemento soggettivo costituito dall’”affectio societatis”. Insomma, per quanto evoluta e raffinata possa essere, una macchina resterà sempre una macchina, dovendosi, viceversa ragionando, riscriversi il sistema intero. Ci si può anche porre il quesito rappresentato dalla fonte concettuale di tale avanzamento tecnologico ormai privo di significato etico e anzi controproducente, quanto ai pericoli per la sicurezza umana e per la potenziale ribellione di queste macchine. La risposta può forse rinvenirsi in uno stravolgimento del modo di pensare dell’essere umano moderno e in un estremo propagarsi di una forma di egoismo senza limiti, rappresentato dall’elogio smisurato della “volontà di potenza” (Nietszche) e dall’espansionismo dell’”io”, di cui la realtà sarebbe mera propagazione (Hegel). Tali pericoli concettuali erano ben noti al filosofo Heidegger, che, in una celebre intervista al giornale tedesco “Der Spiegel”, definiva l’essere umano contemporaneo come “inquietante”, perché dimentico di autentiche forme etiche, incapace di formulare un sistema di linguaggio e incapace di ragionamenti, ma solo di connessioni di parole. Proprio qui sta il tema e la risposta: che solo l’essere umano può ragionare, cioè pensare in modo etico e agire in modo eticamente orientato (S.Tommaso d’Aquino). Perso tale attributo, l’essere umano finisce per perdere la propria identità morale, divenendo qualcosa d’altro: una macchina dalle sembianze umane probabilmente. Ma una macchina è solo capace di intelletto…non di ragione.

Fonte: https://magazine.wikimilano.it

Caporalato, il ritorno della schiavitù in Italia

Il caporalato merita di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano

di Gustavo Cioppa
Magistrato, già sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Posto che l’attività delittuosa merita sempre aspra condanna, vi sono determinati reati estremamente diffusi nel tessuto sociale italiano e particolarmente gravi, espressioni molto spesso di una vera e propria privazione della dignità umana e certamente comunque di un grande disvalore. Tra questi deve senza dubbio essere annoverato il reato di cui all’art. 603 bis del codice penale, ossia il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, meglio noto come caporalato, reato offensivo del bene giuridico rappresentato dal diritto al lavoro, bene giuridico di sicuro fondamento costituzionale, negli articoli 1 e 4 della Costituzione, secondo cui l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 comma 1 Cost.) e secondo cui la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4 comma 1 Cost.). Al di là del suo inquadramento scientifico, il caporalato sembra tristemente essere diventato una consuetudine e questo si traduce in un’inaccettabile forma di disprezzo per la vita umana.

Le condizioni umilianti e disumane dei lavoratori extracomunitari

E infatti il lavoratore, spesso proveniente da Paesi extracomunitari, deve sottostare a condizioni umilianti, soffrendo tutti i giorni condizioni di vita disumane. Quale allora il prezzo da pagare per la propria libertà? Fuggire da una situazione di miseria economica, da guerre o da condizioni di schiavitù per ritrovarsi in situazioni di assoggettamento della propria vita al volere di una persona che può disporre del corpo e della libertà morale dei lavoratori? Proprio questa è la situazione che vivono coloro che lavorano per un caporale: una condizione di pieno e assoluto assoggettamento al volere di una persona che detiene una sorta di ius vitae ac necis sui suoi sottoposti.

Il caporalato bene merita allora di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano, perché si traduce in primo luogo in un’intollerabile offesa al senso di umanità. Chi accetta le condizioni imposte dal caporale spesso lo fa perché non ha scelta: perché l’alternativa è una morte certa…e allora? Allora si è costretti a scegliere la schiavitù, per non morire, ma a costo comunque del sacrificio della dignità umana, come nel caso dei braccianti di Latina, cui venivano somministrate sostanze stupefacenti affinché essi lavorassero anche 21 ore al giorno, oppure nel caso dei braccianti di aziende agricole, come in Emilia Romagna, costretti a lavorare nelle ore più calde del giorno in questa caldissima estate. Si accetta di non avere un giorno di riposo, di lavorare per meno di 5 euro all’ora, di non potersi sposare, di vivere in fabbricati fatiscenti privi di servizi sanitari, di non poter pranzare o cenare, di non poter avere una vita sociale. La persona viene allora ridotta a oggetto, a merce.

L’ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù

Sorge allora la domanda: è questa vita o vi sono gli estremi per la denuncia non solo del reato di cui all’art. 603 bis c.p. ma anche per quelli del reato di cui all’art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù)? Probabilmente il capo di imputazione ben potrebbe ricomprendere anche tale seconda fattispecie criminosa, che ben descrive cos’è la schiavitù: non un generico sfruttamento, comunque tristemente diffuso, ma la riduzione o il mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative umilianti e a pericolo della sua stessa vita, con pieno potere di disposizione del caporale sul corpo e sulla volontà di queste persone, ridotte a merce, private in definitiva della loro anima, poiché un “no” a questo tiranno implicherebbe, nella migliore delle ipotesi, ritorsioni e percosse, come è accaduto di recente nelle Langhe. E allora quale il prezzo da pagare per guadagnare quei pochi spiccioli per non morire di fame?

Rinunciare alla propria dignità personale e alla propria libertà: barattare una morte certa con un destino di schiavitù. La schiavitù non è allora stata abolita con il passaggio a uno Stato di diritto. La rivoluzione francese, che tanto proclamava ideali di libertà ed uguaglianza, si è del resto caratterizzata per una grande violenza e per molte morti di innocenti e non ha comunque risolto il problema della schiavitù economica, ossia di quell’atteggiamento di chi concede sì un lavoro o una fonte di reddito a una persona in difficoltà economiche, ma a un prezzo elevatissimo per quest’ultima: la rinuncia alla propria dignità. Ciò probabilmente giustifica l’affermazione di chi, come il filosofo Schopenhauer, ha sostenuto che nello Stato di diritto si è semplicemente passati dalla logica del più forte a quella del più furbo.

La consapevole malvagità del caporale

E appunto cosa diversa è la malvagità che spesso si cela dietro alla furbizia rispetto alla ragione – non mera intelligenza in senso stretto (per un approfondimento v. quanto scriveva sul tema S. Tommaso D’Aquino) -. Sotto questo profilo, il caporale è una persona astuta, ma non certo dotata di ragione, ossia di bontà morale. Egli è appunto astuto, ma malvagio, nel momento in cui adotta determinate strategie lavorative o fiscali per eludere il versamento delle imposte, sottopagando i propri dipendenti e non pagando loro i contributi dovuti per legge.

Nonostante questa malvagità, molte persone, spesso provenienti da altri Paesi, per sfuggire a guerre o a situazioni di sostanziale privazione della vita, vengono in Italia…per ritrovarsi spesso in situazioni ancora peggiori, come ben espresso da un bracciante africano intervistato nel contesto del caporalato pugliese. Questo è allora l’eterno ritorno della schiavitù. Si tratta di un dramma vissuto anche in altri ambiti, come quello della prostituzione, ove il pappone recluta queste ragazze costringendole a prestazioni sessuali, spesso dietro percosse (si rientrerebbe anche in questo caso, come in quello del caporalato, nell’ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù ex art. 600 c.p., alla luce del dettato letterale di tale ultima norma, che punisce “chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”).

Il caporalato deve essere sradicato dal tessuto sociale

Se allora vale nel nostro ordinamento il principio di effettività del medesimo (cfr. sul punto Kelsen, Zagrebelsky, Rodotà) e se le norme giuridiche costituzionali possiedono dunque una reale, diretta ed immediata portata precettiva, va da sé che, fenomeni come quelli del caporalato, come pure quelli, ad esso similari, dello sfruttamento della prostituzione, tutte manifestazioni di un vero e proprio assoggettamento continuativo della persona, con costrizione di questa di prestazioni umilianti, non solo meritano aspra condanna da parte di tutti, ma necessitano di un pronto ed effettivo sradicamento dal tessuto sociale. Ciò è possibile solo attraverso un recupero delle forme etiche tipiche dell’essere umano e di una stessa forma etica dell’economia, un’economia e un mercato del lavoro cioè che non tendano allo sfruttamento e al mero accaparramento del profitto, con conseguente svalutazione del sostrato umano che, come sorregge i rapporti umani, così sorregge quelli lavorativi.

In un certo senso, il tema in esame si accosta ai pericoli dell’intelligenza artificiale, alla considerazione cioè dell’essere umano non più come persona ma come mero prodotto e, stante tale inaccettabile qualificazione come merce, il diritto in capo al datore di lavoro di disfarsi di esso una volta divenuto non più produttivo. In tal senso è imprescindibile un recupero dell’equità. Il riferimento è senza dubbio a quanto dispone l’art. 1374 del codice civile, secondo cui “il contratto obbliga alle parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”. Il riferimento all’equità appunto, equità che non può essere intesa quale elemento residuale ma rappresentante piuttosto un principio fondamentale che permea tutto l’ordinamento, giuridico e non solo.

L’emblematica e drammatica vicenda di Satman Singh

L’equità però non è un precetto solo giuridico e astratto-teorico. Essa deve essere concretamente posta in essere nei rapporti umani, compresi quelli lavorativi. Ecco allora che non devono più verificarsi fatti come quello, recente, di Satman Singh, bracciante trentunenne di origine indiana, che, anziché essere prontamente soccorso a seguito di un infortunio sul lavoro, ove gli era stato rimasto tranciato un braccio e schiacciati gli arti inferiori, è stato abbandonato davanti alla porta di casa, poggiato sopra una cassetta utilizzata per la raccolta degli ortaggi.

Il caso di Satman è solo l’ultimo di una serie di soprusi che tuttora proseguono, con una spirale simile a quella dei femminicidi. Tutto questo chiaramente è inaccettabile e merita pronta risposta, sotto più versanti, con particolare riferimento all’abbattimento dei costi del lavoro, alla premiazione della qualità attraverso dei rating aziendali, specialmente ai fini dell’aggiudicazione di appalti pubblici, rating che, per essere rilasciati, tengano in considerazione le condizioni di lavoro all’interno dell’impresa, alla previsione di una specifica causa di esclusione automatica dalla partecipazione alla gara per l’impresa che commetta il reato di caporalato e di una sospensione della procedura di gara in caso di indagini a carico della stessa per la medesima ipotesi di reato, oltre a un più generale e necessario coinvolgimento solidale ed etico verso una forma di morale economica, che valorizzi maggiormente il ruolo della persona.

Un richiamo ai doveri della solidarietà umana

In tal senso militano la tesi dell’impresa come istituzione, l’istituto dell’impresa sociale e quello dei contratti di solidarietà. Queste tre fattispecie evocano una più generale forma di eticità dell’economia, ossia un’economia (letteralmente dal greco “oikos”, cioè “casa”) capace di fornire tutele e protezioni, un’economia in senso autentico che, rifuggendo da logiche improntante esclusivamente al profitto e tendenti a svalutare la centralità della persona, ripensi a se stessa.

Un recupero etico questo che peraltro molte imprese virtuose stanno ponendo in essere, con l’assunzione di lavoratori invalidi e di persone anziane, di modo che, quella “fame di contratto” ben enunciata da un bracciante africano raccontava della sua grande delusione rispetto alle promesse di una vita migliore e delle condizioni disumane di lavoro e abitative, sia un dato che certamente deve essere ricordato, ma che possa dimostrarsi inattuale, se…tutti…agiremo insieme, adempiendo agli inderogabili doveri di solidarietà umana che il nostro senso di onestà e di autenticità morale ci impone.

Fonte: https://www.affaritaliani.it/milano/caporalato-il-ritorno-della-schiavitu-in-italia-932042.html

La responsabilità

La responsabilità rappresenta un principio universale e al tempo stesso una forma e un modo d’essere dell’ordinamento giuridico, economico e sociale, nonché dello Stato, inteso come Stato-comunità. Oltre che una dimensione strettamente pubblicistica e superindividuale e che trascende l’individuo, la responsabilità presenta altresì una dimensione privatistica e afferente alla personalità e alla psiche di ciascun soggetto, nel senso grammaticale, etico e concettuale del termine. Ecco allora che la responsabilità si declina su molteplici piani: quello etico, quello politico, quello economico e quello giuridico, come meglio si dirà infra. Sul piano grammaticale, la responsabilità è la principale attribuzione del soggetto, inteso come entità capace di autodeterminarsi e di compiere scelte, come comprova la scomposizione letterale del termine in “capacità” (letteralmente: “abilità”) di fornire responsi, che siano adeguati, convincenti, concreti, efficaci ed effettivi. Ecco allora che, come il mondo materiale non avrebbe senso, perché altrimenti incontrollabile, senza le leggi della fisica, così l’ordinamento non sarebbe concepibile nella sua realtà ontologica se privo di regole e di correlative sanzioni. E infatti tutte le norme, ancorchè di carattere etico, sociale o psicologico, sono coperte da una sanzione. Proprio in tal senso ben si apprezza dunque la più profonda giustificazione causale della responsabilità, quale principio, regola e sanzione, nonché, ancor prima, quale significato a monte dell’agire umano e pilastro portante della civiltà. Non sarebbe infatti predicabile una scelta del soggetto senza che lo stesso sia tenuto a risponderne, poiché altrimenti verrebbe a perdere di significato il ruolo della psiche come fonte di responsabilità, della kantiana legge morale, che proprio a tale funzione assolve, ossia il ricordarci che i precetti giuridici e morali non sono solo entità a noi esterne, ma fanno parte della nostra natura, quali creature intrinsecamente responsabili perché portate al bene, perché “teste d’angelo”. Senza responsabilità verrebbe meno, altresì, l’equilibrio dei rapporti sociali, nonché la misura della relazione tra noi e il mondo esterno. Ecco perché l’azione irresponsabile viene punita con una sanzione: perché rompe il sistema, rompe il fascio obbligatorio che regola l’ordinamento, fascio obbligatorio che da alcuni autori processualcivilisti tedeschi verrà ben definito come “rapporto giuridico fondamentale”. Occorre allora scandagliare i vari piani concettuali su cui si declina il tema oggetto di indagine. In primo luogo il profilo etico, ove la responsabilità assurge, come accennato, a regola di funzionamento della società civile, al pari di come nella fisica ogni azione produce una reazione uguale e contraria. Il riferimento alle regole fisiche evoca il principio più generale del significato dei rapporti sociali, di come cioè si sia passati da uno stato di natura allo stato di civiltà, attraverso la stipula del contratto sociale, la cui prima regola si traduce nel brocardo latino “pacta servanda sunt”. Quale precetto etico, la responsabilità si traduce in norma conformativa dei comportamenti umani e quale sanzione in caso di violazioni, in ossequio alla nozione di giustizia distributiva, che presuppone a monte una scelta etica: scegliere, letteralmente, come “fare le parti” (infatti, il fato, in greco “moira” deriva da un verbo greco che proprio significa “fare le parti”). Tale ultimo addentellato concettuale si riconnette anche a una tematica teologica, ossia della responsabilità quale principale attributo di Dio, sebbene in un’altra declinazione rispetto a quella valevole per gli esseri umani. Mentre infatti le vite e le scelte dei mortali non seguono la necessità, essendovi dissociazione, nel mondo terreno, tra “volere” e “potere”, l’essenza di Dio sta proprio nella necessità, ben espressa dal dantesco “vuolsi colà ove si puote ciò che si vuole”. Se infatti Dio è Bene e Giustizia, le sue scelte saranno sempre responsabili e dunque la responsabilità viene a configurare il suo principale attributo, nell’accezione però di una responsabilità necessitata.

La responsabilità assume particolare pregnanza altresì con riferimento alla vita politica, che con il tema etico presenta indubbie inferenze, traducendosi la politica, nel significato greco del termine (“politeia”) quale cura dell’interesse pubblico a tutela e a beneficio della comunità di riferimento, a fronte dei cui elettori il politico è responsabilizzato quale garante, quale espressione della volontà del popolo, espressione, per dirla con la filosofia tedesca, dello spirito del popolo (Volkgheist), a fondamento e giustificazione della concezione di Stato non solo come Stato-apparato, ma, prima ancora e soprattutto, come Stato-comunità, ossia come comunità aggregata per la realizzazione di interessi generali e di comuni valori etici. Sul piano politico, allora, la responsabilità si traduce quale regola di gestione delle vite dei cittadini, in termini di scelte di politiche del lavoro, di politica criminale (ad esempio sulla conformazione della prescrizione dei reati, l’introduzione di nuovi delitti e contravvenzioni e la modifica del 2005 in tema di recidiva) e di politica processuale (la modifica della struttura del processo civile di cognizione, l’inserimento, nel processo di esecuzione, dell’ipotesi della vendita diretta, l’introduzione di nuovi riti speciali, come la sospensione del procedimento con messa alla prova, l’introduzione di requisiti di specificità maggiormente stringenti quanto ai motivi dell’appello penale ex art. 581 c.p.p.). Centrale è, ancora, la responsabilità nella politica economica, con particolare riferimento alle scelte di gestione del denaro pubblico, la cui cattiva scelta gestionale può comportare una forma di danno erariale, con conseguente intervento sanzionatorio degli organi di giustizia contabile. Sotto il profilo più strettamente economico, la regola di responsabilità rappresenta la norma di comportamento fondamentale su cui si è fondata tutta la normativa economico-contabile, sia a livello statutale che locale che a livello europeo (cfr. su tutte le normative intervenute, la l. n. 559/1993, che ha segnato la soppressione delle gestioni fuori bilancio nell’ambito delle amministrazioni dello Stato). A una primaria funzione responsabilizzante, in chiave di previsione e di delineamento delle linee strategiche tanto dell’azienda privata quanto dell’ente pubblico, assolve il bilancio, nonché, ex post, il rendiconto, unitamente, almeno con riferimento alla gestione economica degli enti locali, a una serie di documenti, tra cui il documento unico di programmazione (DUP), che rappresentano le linee guida ed operative dell’ente. Così, gli amministratori, nel momento in cui propongono l’inserimento di una voce di entrata o di spesa nel bilanci, e l’assemblea (con riferimento alle società di diritto privato) o il Consiglio (con riferimento a Stato, Regioni, Province e Comuni), assumono una grande responsabilità, quali garanti del buon andamento dei conti pubblici, unitamente ai sindaci e agli organi di revisione, nonché alla figura del segretario comunale, garante della legalità negli enti locali e di norma responsabile anticorruzione, ai sensi della l. 190/2012. Poichè è necessario rispondere all’interrogativo “quis custodet custodes?”, su tale quadro interviene il sistema dei controlli interni (art. 147 e ss. d.lgs. n. 267/2000) ed esterni (il controllo, principalmente, della Corte dei Conti) – si introduce allora qui il tema delle posizioni di garanzie, quali forme di garanzia dell’adempimento dei doveri di responsabilità (cfr. anche art. 40 comma 2 c.p.), su cui si tornerà a breve -. Appare d’uopo osservare, per quanto detto, come anche le regole economiche rispondano in primo luogo al tema della responsabilità, essendo infatti previste dure sanzioni (art. 2392 c.c., art. 2409 c.c., art. 141 comma 1 lett. c) d.lgs. n. 267/2000, art. 148 comma 4 d.lgs. 267/2000), in caso di inadempimento a tale dovere etico e giuridico al tempo stesso, oltre che di vero e propria obbligazione (Bianca, La responsabilità). La tematica della spendita di denaro pubblico, in definitiva il denaro versato dai cittadini, prevalentemente tramite le imposte, si riconnette, in chiave di responsabilità del potere di sua spesa e gestione, al tema non solo dei debiti fuori bilancio, ma altresì a quello dell’equità intergenerazionale, principio di natura sovranazionale richiamato anche negli allegati al d.lgs. 118/2011, che si traduce in una forma di giustizia equitativa e sociale volta a garantire alle future generazioni dei servizi e un ambiente, inteso come ecosistema ma non solo, pari o migliore a quello che abbiamo trovato noi (il tema peraltro presenta a sua volte inferenze col principio europeo “chi inquina paga”, a sua volta espressione di responsabilità, cfr. per ulteriori spunti di riflessione Ad. Plen. n. 3/2021). Certamente, però, il terreno per così dire privilegiato della responsabilità in senso tecnico quale formante obbligatorio e norma primaria di comportamento, è quello giuridico, con particolare inferenza, ancora una volta, all’etica e a quei doveri morali e sociali a fondamento dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), ma, tutto sommato e in definitiva, anche dell’obbligazione civile, secondo una concezione estensiva dell’obbligazione, nel suo significato di vincolo sì giuridico ma giuridico in senso lato e non in senso stretto – in tal senso allora il dovere morale, inteso quale forma etica sul piano individuale ed interno, e il dovere sociale, quale forma etica sul piano collettivo ed esterno, finirebbero per colorare di significato l’intera categoria funzionale dell’obbligazione (cfr. peraltro il complesso tema, correlato, della coercibilità dell’obbligazione naturale) -. In tal senso, l’etica diventa diritto, e viceversa, e la responsabilità, intesa come rapporto relazionale tra il singolo e gli altri consociati e, prima ancora, tra il singolo e l’intero ordinamento (concezione pubblicistica dell’obbligazione), si traduce come autoresponsabilità, ossia come relazione obbligatoria del singolo con se stesso, nozione evocante quella kantiana di legge morale che ha messo in un certo senso in crisi il dogma stesso della dualità dell’obbligazione. L’autoresponsabilità, allora, trova sì fondamento, come si è detto tradizionalmente, nel precetto di cui all’art. 1227 c.c. (da leggersi in combinato disposto con gli artt. 1176 c.c. e 1218 c.c.), ma evoca altresì un precetto ben più ampio, lo stesso accennato nella categoria dei concetti giuridici indeterminati e più ancora in norme dal pregnante contenuto etico, come quelle di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, espressioni di altrettanti principi su cui si è spesa illustre letteratura giuridica. La Costituzione reca peraltro indubbie norme fonti di responsabilità e di posizioni di garanzia, come l’art. 28, in tema di responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, l’art. 81 comma 2, sul carattere eccezionale e comunque tassativo del ricorso all’indebitamento, e gli artt. 97 comma 1 e 98 comma 1, con specifico riferimento alla pubblica amministrazione. La responsabilità si presenta allora quale principio trasversale ai singoli rami dell’ordinamento giuridico, e come tale non “spacchettabile”, né considerabile in modo frammentario e settoriale. Così, nel diritto amministrativo essa richiama il tema, primariamente, della responsabilità della pubblica amministrazione, sulla cui natura, se contrattuale o extracontrattuale, da tempo si discute. Nel diritto tributario la primaria norma di responsabilizzazione dei contribuenti si rintraccia agevolmente nell’art. 53 comma 1 Cost., secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, cui fanno da contraltare le norme antielusive (art. 10 bis l. 212/2000, art 37 bis dpr 600/1973) e le disposizioni di carattere penale (d.lgs. n. 74/2000). Nel diritto penale, poi, la responsabilità trova la propria consacrazione nella sua forma più alta, risolvendosi il giudizio penale in una forma di responsabilità tra il singolo e l’intero ordinamento, ove l’imputato è chiamato a dare conto delle proprie azioni avanti a un giudice, che, in forma monocratica o collegiale, è espressione della comunità (ossia dello Stato – comunità) lesa dalla condotta antigiuridica e offensiva. Ecco allora l’inferenza con la tematica delle posizioni di garanzia e con quella del bene giuridico. L’art. 40 comma 2 c.p., infatti, non solo fonda, come si è tradizionalmente rilevato, la categoria funzionale delle posizioni di garanzia, ossia di quelle norme, scritte o non, che attribuiscono una posizione di tutore della legalità, non solo astratta ma anche concreta, a determinate persone. La predetta disposizione, infatti, rappresenta il fondamento causale della teoria del bene giuridico, da più voci, in dottrina e in giurisprudenza, contestata, perché, si è detto, deriverebbe da un ordinamento, quello tedesco, distinto dal nostro, e poi stante il suo carattere indefinito, difficilmente compatibile con il principio di legalità ex art. 25 Cost. A tali obiezioni è infatti possibile agevolmente replicare facendo constare come il precetto, non solo strettamente giuridico ma anche etico, di cui all’art. 40 comma 2 c.p., faccia intravedere un mondo di valori e di principi, un universo metafisico parallelo ed ulteriore a quello delle disposizioni di legge, insomma, che non può essere trascurato e dato tamquam non esset. Questo universo metafisico è allora governato in primo luogo dai principi di Bene, Giustizia, Equità e Protezione, come già ben accennato nella filosofia di Platone. La responsabilità allora si traduce in fonte di protezione e di tutele e, in una visione circolare, rappresenta l’alfa e l’omega dell’ordinamento. La responsabilità, come detto all’inizio, deve essere fonte allora di scelte effettive, efficaci e concrete, nonché rispondenti a una reale sostanza non trincerabile dietro la mera forma. Tale aspetto merita approfondimento. Infatti, tanto nella realtà amministrativa quanto etica, politica ed economica, oltre che sul piano della simulazione giuridica e dell’elusione, ricorrono comportamenti a vario titolo truffaldini e comunque contrari a giustizia, che si caratterizzano per una parvenza di legalità, che tale è però solo da un punto di vista meramente formale, risultando invece le predette condotte prive di reale sostanza meritevole di tutela. I riferimenti sono alle categorie dell’interposizione fittizia di persona, alla simulazione soggettiva ed oggettiva, all’elusione fiscale, ma anche alle false attestazioni in bilancio, alla configurazione come voce di bilancio di un quid che invece ricadrebbe sotto altra voce, alle varie forme fenomenologiche della corruzione, della truffa e della frode in pubbliche forniture, oltre che della frode in commercio (art. 515 c.p.) e del reato di cui all’art. 642 c.p. (fraudolento danneggiamento di beni assicurati e mutilazione della propria persona). I frequenti fatti di cronaca, nazionali e internazionali, che danno conto delle continue violazioni della responsabilità e dell’autoresponsabilità, intese quali precetti etici e non solo giuridici, sia in via frontale che con meccanismi simulatori e fraudolenti più articolati, devono far riflettere. Se il concetto di responsabilità si riconnette, sul piano teologico e filosofico, a quello di bene, la corruzione, la simulazione e la frode si riconnettono a quello di male, male inteso non solo, nell’accezione comune, come l’uccisione o il ferimento di una persona, ma anche, nell’accezione biblica e fatta propria dalla teologia cristiana, come lesione diretta o indiretta della sfera altrui, anche in termini di mero approfittarsi dell’altro. Ecco allora che il romanistico e universale principio del “neminem laedere” si colora di significati ulteriori, fino a ricomprendere forme di lesioni non direttamente percettibili e che pure feriscono e sono dimostrazioni, sebbene in senso lato, di malvagità. Sotto tale profilo, allora, la lesione, sul piano penale, del bene giuridico, presenta sempre una duplice dimensione, individuale e collettiva, poiché accanto alla singola persona uccisa, truffata, depredata, ingannata o vittima di corruzione, vi è la lesione del legame di fiducia con lo Stato, quale comunità di consociati vincolati a reciproche forme di tutela e responsabilità. In tal senso, anche sul piano economico e amministrativo, atteggiamenti irresponsabili come il fare politica economica a debito oltrepassando la ragionevolezza del limite, imposto da norme di bilancio nazionali e sovranazionali e non solo, oppure l’affidare direttamente un appalto senza motivazione rafforzata, giovandosi delle norme del nuovo codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) che maggiormente concedono la forma dell’affidamento diretto rispetto al precedente d.lgs. n. 50/2016, devono essere censurati duramente e risolutamente. Il fatto poi che la violazione della norma di responsabilità sembri diventare un fenomeno su scala europea (il caso Qatargate e il caso che ha interessato la Germania, con l’accusa per il cancelliere Scholz di aver esposto dati non veritieri sui conti pubblici tedeschi) e internazionale (le inchieste che hanno riguardato i due candidati alla Casa Bianca, Trump e Biden) deve certamente destare l’opinione pubblica e del mondo intellettuale, per attivare un doveroso ripristino dell’Etica e della Politica con la “E” e la “P” maiuscole. In definitiva, la responsabilità, principio di verità dal multiforme aspetto, al pari di Iride dalle multiformi facce (Platone) funge da regola guida delle condotte umane, prescrizione sulla conformazione di queste al giusto e all’equo e fonte di tutela e, al tempo stesso, sanzione in caso di sua violazione, in caso, per dirla con Busnelli, di inadempimento dell’obbligazione primaria e fondamentale tra i membri dello Stato.

Gustavo Cioppa

Fonte: https://www.osservatorio.milano.it/post/responsabilita

Il Rap: arte o mera espressione? Quale il suo significato sociale? Regola o eccezione?

Articolo su WikiMilano Magazine

Il rap non è solo un genere musicale; è una forma espressiva, che deriva da una potente esigenza di denuncia e di ribellione contro realtà di disagio, violenza e soprusi. La necessità di comunicare e di condividere la protesta nei confronti delle predette realtà si manifesta in un linguaggio informale, una conversazione ritmata, di impatto immediato. Il termine “rap” deriva infatti dall’acronimo di “rhytm and poetry”, che ben esprime l’obiettivo e la natura stessa di questo genere.

La necessità di comunicare quello che ci disturba, che contestiamo, ha dato dimensione ad un nuovo modo di fare musica. In questa modalità espressiva tanti, soprattutto giovani, si sono da subito riconosciuti.


La forza del rap sta dunque nella capacità di parlare la lingua delle nuove generazioni e di toccare tasti per loro sensibili. I messaggi comunicativi “forti”, cantati, o meglio, rappati, costituiscono espressione di una sofferenza interiore verso una società incapace di ascoltare, basata sul profitto, sul rendimento, su prestazioni sempre eccellenti, in una parola, una società alienante (cfr, per un approfondimento del tema dell’alienazione, Hegel, e, sul piano strettamente economico e sociale, Marx e Mancuse). Poichè l’uomo contemporaneo non è più capace di comunicare, occorre allora ripensare a una forma di linguaggio (Wittegstein).


Quella rap può allora essere vista proprio in questi termini: una nuova forma di linguaggio. Noi però, quali membri della società civile, non possiamo rimanere indifferenti a questo malessere esistenziale, che la musica rap denuncia. Dobbiamo invece indagare sulle origini eziologiche di tale malessere, da rinvenirsi in primo luogo nell’ansia e nella preoccupazione per il futuro (non a caso questo movimento musicale nasce sul crinale degli anni della grave crisi economica del 2008 prima, della pandemia di Covid-19, delle recenti guerre, e di tutte le correlate conseguenze negative di tali eventi, come l’estrema difficoltà dei giovani di trovare un lavoro adeguatamente retribuito).


Il fenomeno sociale, ormai di estese dimensioni, non può certo essere ignorato, e sarebbe parziale e inadeguato qualsivoglia approccio ermeneutico che lo ignorasse. In fondo, se viviamo in una società lacerata nei rapporti sociali e, sotto molteplici aspetti, così malsana e portata all’eccesso, la causa deve essere rinvenuta nell’artefice, nell’autore, ossia nelle nostre condotte.


Poichè infatti nulla si causa da sé, e ferma la regola della causalità umana, dobbiamo allora, con severità, farci giudici di noi stessi e chiederci se vogliamo rimanere indifferenti, considerando lo status quo quale immanente e immutabile, o se, invece, vogliamo cambiare le cose, fermo che, se si crede che nulla cambierà, nulla cambierà per davvero (Falcone).


Alcuni rapper, come l’autore della canzone che ha ottenuto il secondo premio al festival di Sanremo e non pochi altri esempi, peraltro, sembrano discostarsi dal trattare temi squisitamente afferenti a disagi che caratterizzano, purtroppo, la nostra società. Allora la musica rap è sì un canto di sofferenza, un canto contro le ingiustizie sociali, ma è anche qualcosa di più, un qualcosa che può diventare anche uno spunto per un concreto miglioramento collettivo, un momento di riflessione per una svolta, a partire dalla consapevolezza di ciò che i giovani, con i loro messaggi, ci vogliono trasmettere. Si deve allora riflettere con particolare attenzione su quale tipo di società sia quella attuale, verso dove stiamo andando e se sia questo il senso che vogliamo imprimere al nostro vivere e a quello della collettività. Così, nella “Coscienza di Zeno” di Italo Svevo, quando si dice che Zeno non vive, bensì si vede vivere, viene designato già nel ‘900 l’antesignano di quel malessere, individuale ma anche collettivo, a un tempo psicologico e sociale, che finirà per acutizzarsi nel secolo successivo.


Il tema della frustrazione, dello stress, dell’eccesso come valvola di sfogo, ma anche come forma di dipendenza e contrazione della libertà decisionale effettiva, si unisce allora a quello dell’alienazione (su cui già v., tra i più noti, Hegel, in generale, Marx e Mancuse, con riferimento all’alienazione economica). A livello psicologico e psicanalitico, l’alienazione rappresenta un vero e proprio dramma, traducendosi in una scissione mentale e spirituale tra l’”io” come sono e l’”l’io come appaio, tra l’”io” come piaccio a me e l’”io” come vengo giudicato dagli altri, tra, in sostanza, la prospettazione interiore e quella esteriore dell’”io”. Noi però siamo esseri unitari, siamo, appunto (e senza tautologia alcuna) “noi”.


L’individuo, insomma, non può essere “spacchettato” o “frammentato”. Tale pericolo di spacchettamento e frammentazione è implicito tuttavia nell’alienazione che caratterizza la società contemporanea e tale malessere, tale lacerazione interiore, viene fatto oggetto di canto da parte dei rapper.


Il sopracitato caso però di canzoni rap dal tono positivo, deve però fare un attimo rasserenare. Tale riespansione della positività deve essere salutata con favore, poiché la vita è per definizione bella e “dono”, dono non certo scontato, che giammai la frustrazione, lo stress e il pericolo dell’eccesso devono adombrare o comprimere. Ecco allora che, come il raggio di sole dopo un turbolento temporale, è bello pensare che dalla sofferenza cantata da questi autori possa nascere un fiore, un fiore simbolo della speranza e del desiderio di pace e giustizia, sentimenti che sempre devono inverare i rapporti sociali.

Fonte: https://www.wikimilano.it/wiki/Gustavo_Cioppa_-_Rap

Culpa in educando e culpa in vigilando

La culpa in educando e la culpa in vigilando designano due sfaccettature di una medesima nozione, due prospettive di una medesima realtà, due lati di un medesimo volto. Così, la colpa non è solo, sic et simpliciter, imperizia, imprudenza o negligenza (colpa generica) o l’inosservanza di ordini, leggi, regolamenti o discipline (colpa specifica). Essa costituisce in primo luogo inadempimento.

Inadempimento rispetto a che cosa? A quale obbligazione?

A un generale dovere di protezione e di tutela imposto dai principi generali dell’ordinamento sociale, giuridico ed economico. Il riferimento normativo di tale dovere si rintraccia in primo luogo nell’art. 40 comma 2 c.p. (posizioni di garanzia), di cui sono espressione altresì altri articoli, quali epifanie derivate dalla luce primaria irradiata dalla predetta norma penale, quali l’art. 2087 c.c. e l’art. 140 del Codice della strada.

Le posizioni di garanzia sono state distinte dalla dottrina in posizioni di garanzia di controllo e di garanzia di protezione. Esempi delle prime sono rappresentati dal ruolo del collegio sindacale rispetto all’operato degli amministratori, dal ruolo del sistema dei controlli interni negli enti locali, dal ruolo del segretario comunale rispetto ai Comuni, dalla Banca d’Italia rispetto all’attività delle singole banche, specie in cui la prima rilascia l’autorizzazione a svolgere l’attività bancaria, dal ruolo del Garante per la protezione dei dati personali rispetto ai titolari del trattamento, dal ruolo del consiglio di amministrazione rispetto all’amministratore delegato, dal ruolo del rappresentato rispetto al rappresentante, dal ruolo del delegante rispetto al delegato. Esempi delle seconde sono costituiti dal ruolo del maestro di sci, nuoto o altre attività sportive verso gli allievi, dal ruolo dell’insegnante verso gli allievi, dal ruolo dei genitori verso i figli, dal ruolo del tutore verso l’interdetto, dal ruolo del banchiere verso l’investitore, dal ruolo del poliziotto, della guardia giurata o del capo scorta rispetto alla persona che essi sono chiamati a proteggere.

Delineati i tratti essenziali della tematica, occorre fare però un passo indietro, sotto il profilo storico.

La culpa in vigilando e quella in educando rappresentano due “quid” non solo “in negativo”, ma anche “in positivo” e si riconnettono a due grandi linee culturali: l’educazione e l’erudizione (culpa in educando) e la tutela patrimoniale (culpa in vigilando).

La prima direttrice è stata segnata, nella storia del pensiero letterario e filosofico, dalle opere di Kant, con particolare riferimento alla “Critica della ragion pratica” e alla “Critica del giudizio”, ove la celebre affermazione della centralità della morale, ben descritta in termini di legge morale dal filosofo con la celebre massima: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. In senso analogo si è mossa la centralità, nella cultura ottocentesca, soprattutto nel contesto del romanticismo tedesco, dell’autoerudizione e dell’autodidattica (Goethe), unitamente, nel contesto italiano, all’affermata centralità del ruolo degli insegnanti e del ruolo dei genitori quali formatori di vita e precettori, consacrata nel libro “Cuore” di De Amicis.

In senso analogo, la Costituzione italiana del 1948 stabilisce, all’art. 34, che “(comma 1) la scuola è aperta a tutti. (comma 2) L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. (comma 3) I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. (comma 4) La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”.

Così pure, l’art. 415 del codice civile, prevedendo la possibile inabilitazione per il sordo o il cieco fin dalla nascita o dalla prima infanzia che non abbiano ricevuto un’educazione sufficiente, parlando per l’appunto di “educazione” e non già meramente di “istruzione”, palesa come un’insufficiente educazione possa rappresentare un limite alla piena realizzazione della personalità giuridica e, più nello specifico, della capacità di agire. Ciò peraltro è assunto ben noto nella criminologia e nella dottrina penalistica, ove, come in tema di recidiva, di perdono giudiziale, di dosimetria sanzionatoria ex art. 133 c.p. e più in generale in relazione alla funzione della pena, si è detto che talora l’ambiente sociale e culturale in cui si è vissuti può rappresentare un terreno criminogeno, senza però al tempo stesso leggere tale assunto in prospettiva esclusivamente vittimologica, pena il concedere una generale esenzione dalla responsabilità penale, il che non può essere né è predicabile. Sulla seconda delle due direttive sopra delineate si sono mosse invece le grandi innovazioni giuridiche dell’ottocento e del novecento, come l’ideazione del Garatievetrag (contratto autonomo di garanzia) da parte del giurista Stammler, dell’affermazione, sviluppo e approfondimento della fideiussione e dell’assicurazione, non solo quali schemi contrattuali, ma anche quali “sistema”, al punto di arrivare all’affermazione delle compagnie di assicurazione e delle mutue assicuratrici e più in generale dell’affermazione, nella Germania di Bismarck, del moderno sistema previdenziale e assicurativo: si realizzano cioè forme di tutela nuove e organiche e si assiste alla creazione di un sistema di controlli ove certe autorità (enti nazionali come l’Inps o autorità amministrative indipendenti, come Agcom, Ivass e Banca d’Italia) si pongono a controllori, con tanto di poteri ispettivi e sanzionatori.

Sotto entrambi i profili, quello strettamente culturale e quello della tutela patrimoniale, il magistrato si pone sia quale garante in educando sia quale garante in vigilando, poiché egli deve sia educare attraverso la pena (funzione rieducativa della pena) sia vigilare sul rispetto delle leggi (arg. ex art. 111 Cost. e 112 Cost.).

Le due direttrici predette convergono allora nel portato concettuale, ermeneutico e applicativo di cui all’art. 1176 c.c., in tema di diligenza del buon padre di famiglia (comma 1) e del professionista (comma 2). La colpa in vigilando e in educando consegue allora alla violazione di una fondamentale norma di comportamento (cfr. SS.UU. Rordorf per un’enunciazione della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità), rappresentata appunto dalla regola della diligenza: di qui l’inadempimento di cui sopra si è detto: l’inadempimento a un dovere di natura solo in apparenza esclusivamente privatistica e munito invece di un portato etico e giuridico afferente certamente (anche) alla sfera pubblicistica. Quindi art. 1176 c.c. quale norma di diritto pubblico, al pari di altre norme di natura pubblicistica quali l’art. 40 comma 2, l’art. 2087 c.c. e l’art. 140 del Codice della strada. In tal senso, l’omissione descritta nello

schema del reato omissivo raffigura una forma di peccato, come si è detto nella patristica e nella teologia tradizionale, o comunque una forma di inadempimento, di negligenza, di noncuranza, di una “noluntas” (Schopenhauer), di una forma di lassissmo, di assenteismo, di legittimazione del non fare o del fare il minimo indispensabile (per afferire ai cronici mali della pubblica amministrazione italiana). Di qui la necessità della prospettiva del recupero.

Ma… quale il rimedio?

Probabilmente la riscoperta dell’etica, quale regola di comportamento e di relazione nei rapporti umani. La legge allora quale regola di comportamento, la legge quale fonte di educazione e insegnamento…e…di precetto.

Perché si parla di “precetto”, soprattutto con riferimento all’ambito penale?

Perché questo sostantivo si pone a riconoscimento e a consacrazione della funzione della legge, quella appunto di essere precettiva. Di qui le nobili e lodevoli dialettiche della legge morale (Kant) e della morale quale regola di condotta (S. Agostino, S. Tommaso D’Aquino). Quindi appunto, come detto, l’etica (Platone), unitamente al ruolo della filosofia (Platone) e della dialettica (Socrate, Hegel).

Il ruolo del magistrato deve dunque essere anche quello di educatore e di psicologo, ma non già nella prospettiva premiale-vittimologica, bensì in quella rieducativa, in relazione alla funzione rieducativa della pena, ma anche alla sua messa in discussione, a fronte di individui intrinsecamente malvagi – qui il tema diventa peraltro assai complesso e suggestivo, poiché, alla concezione tradizionale della teologia, secondo cui in tutti gli esseri umani residuerebbe comunque un barlume di bontà, ancorché ascoso, si contrappone l’idea calvinistica, ripresa da Padre Amorth, secondo cui tra gli esseri umani vi sarebbero individui intrinsecamente malvagi). E allora… le funzioni del magistrato, del perito (o del consulente tecnico d’ufficio nel processo civile) e dello psicologo, figura centrale che troppo poco viene richiamato dal codice di procedura penale (in una norma in tema di testimonianza del minorenne, e poco altro), sono complementari, poiché né è concepibile né predicabile la funzione del perito scissa da un sostrato etico che sempre deve essere tenuto a mente, al di là della giurisprudenza secondo cui comunque il perito non può spingersi in valutazione giuridiche, pena l’inammissibilità totale o parziale della perizia, né il magistrato può ragionare esclusivamente sulla base delle norme giuridiche senza tenere a mente il loro fondamento extragiuridico.

In effetti, molte norme del codice penale e del codice civile, se non forse tutte, risulterebbero incomprensibili senza comprenderne il postulato etico, sociale o economico che ne è a fondamento. In tal senso l’etica non può essere considerata come scissa e separata dalla psicologia e dal diritto, e viceversa. In tal senso, un’applicazione totalizzante del principio di frammentarietà, secondo il quale l’etica e il diritto devono viaggiare su binari separati e paralleli, tanto declamato dalla dottrina tradizionale (Fiandaca Musco ex multis), non è auspicabile. Il processo penale deve sempre allora rivestirsi di umanità, perché a essere giudicati sono esseri umani, vieppiù minorenni.

Il ruolo della comprensione di questi soggetti e della interpretazione dei loro impulsi psichici, dei loro moventi, della loro cioè introspezione psicologica, spetta appunto, in buona parte, alle valutazioni dello psicologo, che è chiamato alla collaborazione con il giudice per la realizzazione di una decisione il più giusta possibile, nel senso autentico della nozione di giustizia.

Ecco allora che nel 1988 è stato approntato un d.p.r., il numero 448, volto ad adeguare la struttura del processo penale alla figura dell’indagato, imputato o condannato minorenne, ove la primaria funzione del giudice e dello psicologo è di far comprendere al giovane il significato non solo giuridico ma anche sociale del fatto da egli commesso. All’art. 6 del decreto si pone in risalto come in ogni stato e grado del procedimento il magistrato sia costantemente chiamato ad avvalersi del ruolo dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi di assistenza istituiti presso gli enti locali, figure richiamate anche al comma 3 dell’art. 19. Quanto al minore persona offesa, poi, lo psicologo e il magistrato devono sempre evitare, questo in generale, che il minore venga traumatizzato per una seconda volta a causa della reminiscenza dei fatti che egli riferisce di aver subito, in sede processuale (c.d. vittimizzazione secondaria) e sempre deve esservi la massima accortezza nella formulazione delle domande, nell’adozione di misure apposite, come il vetro unidirezionale o la chiusura delle porte d’udienza, oltre alla scelta di un linguaggio accorto e delicato nella formulazione delle domande, affinché la testimonianza del minore sia il più genuina possibile da un lato e affinché lo stesso viva il processo, anche il processo penale, come un’esperienza certamente etica, ma non traumatica.

Fonte: https://psicologiaintribunale.it/culpa-in-educando-e-culpa-in-vigilando/

I femminicidi. Molto più di un problema normativo.

Ospitiamo le riflessioni del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Il 2022 e il 2023 sono stati due anni drammatici quanto ai brutali femminicidi che si sono verificati. L’omicidio di Giulia Cecchettin è solo l’ultimo di una serie di tremendi fatti efferati, come l’uccisione di Giulia Tramontano, incinta di sette mesi, da parte del compagno, che per diverso tempo ha tentato di avvelenarla con veleno topicida, o quella di Concetta Marruocco, uccisa con circa quaranta coltellate dal compagno, o quella di Martina Scialdone, invitata dall’ex compagno ad una cena, per dei chiarimenti, cena tramutatasi in una trappola mortale.

L’elenco sarebbe ancora assai lungo. Preme allora riflettere sulle ragioni, criminologiche, sociali, psicologiche e, non da ultimo, filosofiche, del problema. Le contromisure messe in atto sul piano legislativo, infatti, non bastano. Non il “Codice Rosso” prima, né il “Codice Rosso Rafforzato” ora paiono infatti capaci di debellare il fenomeno criminale in esame, poiché le norme esistono e sono sempre esistite, ma possono essere sempre e comunque violate, come è stato, in tema di corruzione, per le misure di cui alla l. 190/2012.

Serve allora una riflessione che non si fermi alla superficie e alle regole di procedura, occorrendo invece un’analisi più profonda, sulle ragioni psicologiche, psicanalitiche e filosofiche che conducono a reati così efferati, non dissimili, per gravità e ampiezza del fenomeno, ai reati mafiosi o a quelli dei c.d. “colletti bianchi”, come da me sostenuto in un precedente articolo –“In piedi Signori, davanti a una Donna” -.

Il tema non è solo l’inquadramento specifico della fattispecie – femminicidio e non genericamente omicidio o muliericidio o uxoricidio – ma quello del significato della relazione sentimentale. La relazione con una donna viene comunemente classificata, infatti, come relazione amorosa. Occorre forse però fare chiarezza su questo sostantivo, centrale nella storia dell’umanità. Nell’antichità classica, Platone è stato forse il solo pensatore che ha enunciato la portata etica e spirituale dell’amore – non semplice “eros”, ma “agape” –. Mentre infatti i lirici arcaici come Archiloco o Semonide di Amorgo cantavano di un amore dissoluto, prevalentemente ridotto all’ambito del rapporto sessuale e con versi di vero e proprio spregio verso la figura femminile, Platone, in tre opere fondamentali, il Simposio, il Fedro e il Fedone, comprende come l’amore non sia la mera compiacenza carnale, pure descritta nel Simposio, ma come si tratti dell’incarnazione di un’idea, di un quidmetafisico (Fedro e Fedone), nella ben espressa lotta tra il cavallo bianco (la virtù, l’amore, l’agape) e il cavallo nero (il vizio, la mera compiacenza carnale). Il mito della scelta che spetta all’auriga, chiamato a dare forza al cavallo bianco che lo conduce verso l’alto o al cavallo nero che lo trascina verso il basso rispecchia la libera scelta in capo all’individuo tra bene e male e, più in generale, sull’interpretazione virtuosa o viziata della vita e delle manifestazioni fenomeniche di quest’ultima, la prima e più importante delle quali è senza dubbio l’amore, al punto che Dante definisce l’essere umano proprio come “animale di libertà e d’amore”. Sulla linea platonica si pone altresì il dolce stilnovo, che canta di un amore galante, cortese, raffinato e rispettoso della libertà della donna, ben espresso nella celebre poesia “Al cor gentil rempaira sempre amore” di Guido Guinizelli.

Dante e Petrarca poi raggiungono l’apice di tale parabola sull’amore virtuoso, iniziata da Platone. Il Sommo Poeta, in particolare, sulla scorta del contenuto della Bibbia, ricomprende nella nozione di “amore” non solo quello verso l’altro sesso, ma anche verso il prossimo e gli altri e, nella sua forma più aulica, verso Dio. Bellezza, amore e bene (con la “b”, la “a” e la “b” minuscole) non possono infatti essere compresi senza aver inteso la Bellezza, l’Amore e il Bene (con la “B”, la “A” e la “B” maiuscole).

Nei secoli successivi, tuttavia, tale parabola celeste finisce per invertirsi. Alla filosofia di Kant, che, ancora, forse illudendosi, ripone fiducia nella bontà e nell’altruismo umani, definendo l’essere umano come “testa d’angelo”, subentra la dialettica del narcisismo e dell’egoismo, con Nietszche e Shopenhauer. In particolare, Shopenhauer, che, secondo i racconti dell’epoca, pare avesse tentato di molestare la vicina di casa, giunge a considerare l’amore come avente la sua radice solo nell’istinto sessuale, un inganno della natura, il cui unico scopo è la conservazione della specie. Nietszche, dal canto suo, nell’elogiare oltremodo, fino a sostituirla a Dio, l’immagine del superuomo, ossia, in realtà, niente più che l’uomo, con tutti i suoi limiti, instaura una non certo pregevole dialettica del narcisismo e dell’egoismo. Nietzsche, in particolare, asserendo che l’odio è il contrario eguale dell’amore, poiché chi ci odia in realtà ci ama, essendo cosa diversa il mero disprezzo, sottintende un’idea di amore come “voler possedere”, coerentemente, del resto, con l’ostentazione, nel proprio pensiero, della “volontà di potenza”. Ecco allora che “Noluntas” (Shopenhauer), “Volontà di potenza” (Nietszche), “Superuomo” (Nietszche) e “voler possedere” instillano negli animi degli ascoltatori una dialettica della malvagità (sotto il profilo morale) e del nichilismo (sotto il profilo filosofico). Ma questo non è l’amore, che è invece “pienezza” e “valore”; anzi, la “Pienezza” e il “Valore” (Platone, Dante, Petrarca) per antonomasia.

La tematica filosofica si riconnette qui a quella psichiatrica e psicanalitica: le ragioni psicologiche della commissione di un femminicidio. Il filo rosso che unisce queste due aree gnoseologiche risiede nella concezione di amore come “voler possedere”, nell’intendere la relazione quasi come la titolarità di un diritto reale sulla cosa, capace di esprimersi alla stregua del potere di fatto sul bene materiale, al limite del dettato letterale dell’art. 1140 del codice civile in tema di possesso, la privazione del qual possesso può, nell’ottica del femminicida, trovare risposta sanzionatoria con la privazione della vita della partner. La donna però non è certo degradabile a cosa, salvo voler aderire a una diversa forma di Stato, maschilista, non egalitario e, in definitiva, non democratico. Ragionare nella predetta logica presuppone inoltre una vera e propria deviazione mentale, per lo più nella forma del narcisismo, ben propagandato dalla predetta linea filosofica Nietszche –Shopenhauer. Occorre peraltro precisare, non intendendo prestare il fianco a esenzioni di penale responsabilità, che anche la patologia psichiatrica, pur capace di tradursi in un vizio di mente totale o parziale ai sensi degli articoli 88 e 89 del codice penale, non esclude il rimprovero e la pena a fronte della particolare crudeltà ed efferatezza di un fatto di reato (Antolisei), poiché anche il pazzo e il minorenne, e in generale l’infermo di mente, è in grado, come fatto constare da attenti giuristi e filosofi del diritto, di comprendere le più basilari nozioni di “bene” e di “male”.

Il tema non è allora solo quello della pena, ma anche di un adeguato percorso educativo e psichiatrico, nonché di una rivalorizzazione del ruolo della cultura, della scuola e del libro cartaceo – Shopenhauer, pur tra i molti errori morali, qualcosa di buono l’aveva detto, rimarcando l’importanza centrale della lettura dei libri cartacei e come il leggerne molto sia fondamentale per la crescita dell’individuo (nell’opera minore “Del leggere e dei libri”), e non solo (per correggere l’etica del filosofo tedesco) per sapersi meglio difendere nella società, ma prima di tutto per un arricchimento etico.

Un altro tassello deve essere aggiunto, per comprendere il complesso quadro storico e filosofico all’origine del problema sociale dei femminicidi: il ruolo del dialogo. Socrate, come noto, riteneva che solo dialogando si può ricercare il sapere…e..(potremmo aggiungere)…non solo il sapere, ma anche l’amore e la comprensione del senso della vita. Il dialogo implica infatti un atteggiamento di armonia spirituale, di melodia sinfonica, di armonia con la natura, poiché noi siamo parti di una medesima realtà, di una medesima natura (in senso oggettivo, quale mondo fisico), e poiché anche la nostra natura (in senso soggettivo, quale foro interiore, quale psiche) è comune a tutti noi, non ne possiamo prescindere. Proprio allora partendo dalla basilare considerazione della comune condizione di esseri umani, ben si può comprendere il ruolo e l’importanza di avere un comune linguaggio, il linguaggio dell’amore, poiché l’essere umano è in primo luogo amore – come comprovano celebri massime, come quella di Antigone (“sono fatta per condividere l’amore, non l’odio”, come quella di Dante (“animale di libertà e d’amore”) e la celebre poesia di Guido GuinizelliAl cor gentil rempaira sempre amore”. Ecco allora la corretta chiave di lettura: ciò che deve essere ricercato nella relazione è il completamento (come narrato nel mito platonico degli Androgini), che si raggiunge mediante l’unione (l’amore) e non già mediante la contrapposizione (la violenza) né mediante il mero atto sessuale (parte materiale della relazione in sé però non autosufficiente). Occorre allora una riscoperta della cultura, del ruolo della scuola, del linguaggio parlato, dei libri cartacei, dell’umiltà, dell’autocritica, del dialogo e di quella linea di pensiero che da Platone…forse può essere ancora fatta rivivere! Insomma, le norme ci sono, ma non basta, servono la coscienza sociale e la fermezza morale di tutti gli operatori del settore, ma prima ancora dei privati cittadini. Come in quel caso in cui una donna venne violentata in pieno centro a Bologna e nessun passante si fermò per interrompere l’azione violenta del molestatore, in spregio al dovere di protezione dei consociati, principio derivante in primo luogo dai precetti universali (e definiti come principi universali dell’intero ordinamento, non solo di quello civilistico, dalla Corte di Cassazione) di comportamento secondo buona fede e correttezza.

Proseguendo sul crinale del mio ultimo articolo sulla corruzione, sono profondamente convinto che le leggi, per funzionare, presuppongano un assodato sostrato etico nella coscienza collettiva, che deve sempre essere verificato costantemente secondo le coscienze di noi tutti. Solo così si può rompere il clima di assuefazione alla violenza, sia essa violenza economica, come nel caso dell’usura, sia essa violenza contro le Istituzioni (il caso dei reati di corruzione e contro l’amministrazione della giustizia), sia essa minaccia alla vita dello Stato, come nel caso dell’associazionismo mafioso, sia essa violenza contro la persona e, in particolare, verso chi merita particolare tutela, come le donne e i bambini (il caso dei femminicidi, ma anche delle violenze sessuali e della pedofilia).

Fonte: https://www.osservatorio.milano.it/post/i-femminicidi-molto-piu-di-un-problema-normativo

La corruzione, male endemico della società civile?

Le riflessioni del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”. Così Cicerone, apostrofando Catilina, si
scagliava con veemenza intellettuale contro la corruzione, in allora dilagante nella Roma antica. I
tempi sono cambiati, ma il male è rimasto, quale un’endemia del sistema. La corruzione, in chiave metaforica, è creatura assai insidiosa, capace di camuffarsi e cambiare forme, rimanendo però immutata nella sostanza, al pari della frode, rappresentata nella Divina Commedia dal demone Gerione, bel giovane, che però tiene nascosta una coda di scorpione. Il fenomeno collusivo non è solo un crimine, ma è prima di tutto un fatto di ordine etico e morale. L’aver previsto prima il reato di concussione del pubblico ufficiale e poi, con la nota legge n. 190/2012 (c.d. riforma Severino), lo “spacchettamento” della condotta di costrizione e induzione e l’autonoma configurabilità del delitto di cui all’art. 319 quater del codice penale non ha ancora, ad oggi, risolto il problema, rimanendo il male non estirpato e forse anzi accentuato, con il nefasto evento della pandemia di Covid – 19 e della relativa gravissima crisi dell’economia mondiale. Poichè spesso un illecito ne porta con sé, a monte o a valle, degli altri, così il fenomeno collusivo si accompagna a reati di stampo mafioso, oppure a reati economici. Il nesso tra associazione mafiosa e corruzione è particolarmente stretto, poiché la collusione con vertici politici e amministrativi è la via preferenziale della moderna forma di criminalità organizzata, al punto che talvolta da indagini compiute su determinati boss emergono connessioni con il tessuto politico e amministrativo della società civile. Un aspetto specifico assai pernicioso del fenomeno si declina con riferimento alla sanità e agli appalti pubblici. Nonostante varie riforme tese a responsabilizzare gli amministratori locali e quelli delle strutture sanitarie, il
male ancora permane. Il discorso non è tanto tecnico, quanto etico e comportamentale, come
accennato. Se infatti non vi fossero leggi poste a disciplinare e sanzionare duramente la corruzione, il dilagare della stessa sarebbe ben comprensibile. Il fatto è che, invece, nel nostro Paese le leggi ad hoc vi sono – il riferimento è in particolare alla l. 190/2012, alle varie norme in tema di conflitto di interesse, come l’art. 6 bis della l. 241/1990 e l’art. 42 del d.lgs. 50/2016 (ora maggiormente ampliato nel d.lgs. 36/2023), al d.lgs. 159/2011 (c.d. codice antimafia), alle norme del d.lgs. 267/2000 che sanzionano duramente gli amministratori locali rei di corruzione o che abbiano arrecato danni all’ente con l’incandidabilità per dieci anni, agli articoli del codice penale che vanno dal 317 (concussione) al 319 quater (induzione a dare o promettere indebita utilità), nonché, last but not least – poiché lo Stato di diritto si manifesta in primo luogo perché trasparente (cfr. N.Bobbio) – il d.lgs. 33/2013. A nulla tuttavia esse sembrano valere, palesandosi, per usare una classificazione romanistica, come “leges minus quam perfectae”, ossia come leggi che, ancorchè formalmente tali, difettano del fondamentale requisito dell’effettività. Il segno sembra proprio non volersi invertire e prova ne è una discutibile disposizione del nuovo codice degli appalti pubblici, approvato con il d.lgs. 36/2023, secondo cui “le pubbliche amministrazioni possono ricevere per donazione beni o prestazioni rispondenti all’interesse pubblico senza obbligo di gara. Restano ferme le disposizioni del codice civile in materia di forma, revocazione e azione di riduzione delle donazioni.” (art. 8 comma 3)
.

A fronte di tali plurimi insuccessi del legislatore, si deve pensare a una via alternativa, che non può essere solamente quella della legificazione, ma deve tradursi in primo luogo in un mutamento della coscienza collettiva, della società civile. Non a caso il filosofo Hegel, nella propria maggiore opera, la “Fenomenologia dello Spirito”, inizia trattando della coscienza individuale come fondamento di quella collettiva ed esse due a fondamento, a loro volta, dello Stato. Ecco allora che solo una coscienza individuale pura, onesta e moralmente ineccepibile può contribuire a un mutamento del sentire collettivo e, congiuntamente, al miglioramento della società civile e dello Stato, che – lo si deve sempre ricordare – non è solo “Stato apparato”, ma anche e prima di tutto, come è noto tra gli studiosi di diritto pubblico, “Stato comunità”. Parlare della corruzione implica una riflessione anche sul cattivo andamento dell’economia nazionale, non certo casuale, ma perdurante da quasi vent’anni e drammaticamente resosi vertiginoso con la pandemia di Covid – 19 e con la guerra in Ucraina. In genere si pensa che l’economia sia frutto di numeri e di calcoli, ma nulla vi è di più falso. Semmai l’economia risponde a un’esigenza di giustizia distributiva (Aristotele) e in definitiva a una questione morale (A.Sen, L’idea di giustizia). Così, se il denaro pubblico, frutto dei sacrifici dei cittadini, viene gestito male, magari dolosamente e in rispondenza a fini del tutto slegati dal perseguimento dell’interesse pubblico, inevitabile è l’ombra preoccupante delle associazioni di stampo mafioso e di fenomeni come usura, evasione fiscale, furti, rapine e così via. Il dato forse più preoccupante del contesto contemporaneo è forse però la consapevolezza che la corruzione non è più un fatto solo italiano, magari relegato a una specifica area geografica. Il tema si riconnette a quello della trasparenza e a quello del ruolo del giudice contabile e amministrativo. La Costituzione, infatti, già prescrivendo all’art. 97 i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, poneva un precetto direttamente applicabile. Così emerge il ruolo della Corte dei Conti, organo giurisdizionale e consultivo (art. 100 Cost.) deputato alla salvaguardia dei conti non solo dello Stato, ma anche del complesso degli enti pubblici. Il fatto, in particolare, che il Sommo Giudice Contabile debba fungere da guardiano anche dei conti degli enti locali e delle ASL, e in generale di tutti gli enti pubblici anche non statali, comprova come lo Stato sia prima di tutto “Stato – comunità” e solo in un secondo momento “Stato – apparato” e come dunque il problema della corruzione di un piccolo paese del sud Italia sia questione che deve interessare tutto lo Stato, alla luce della natura contaminante del fenomeno collusivo, espressione del male per antonomasia. I casi del “Quatar gate” e l’”impeachment” dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, oltre alle indagini in corso da parte della Corte dei Conti tedesca sui dati dichiarati dal cancelliere Scholz, destano unanime preoccupazione, nonostante la Commissione Europea abbia prontamente presentato una “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale”, imponendo agli Stati membri un inasprimento delle sanzioni penali. Come fare sì allora che l’Europa, patria della democrazia (il riferimento è in particolare agli esempi di Leonida e Spartaco), non perda il proprio ruolo, la propria immagine e, in definitiva, la propria identità? Probabilmente tornando a un passato non troppo lontano, dove si studiava in modo approfondito la filosofia e la si metteva in pratica, dove si praticavano l’azione morale e la giustizia sostanziale, dove le Istituzioni erano coese e non si faceva questione di destra o di sinistra, tutti essendo concentrati verso il comune obiettivo del Bene del Paese.
Bisogna allora forse tornare a Platone e Cicerone, due pensatori che sulla tematica della corruzione, morale e politica, hanno scritto. Bisogna, forse, ricordare il precetto kantiano: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Ecco allora che la cultura occidentale, culla della democrazia, è proprio l’antitesi della corruzione, che invece presuppone una diseguaglianza sostanziale di fronte alla legge, o, per meglio dire, al diritto. Se allora l’occidente è detentore di quel valore chiamato “civiltà”, ne consegue che solo ripensando alle lotte per la democrazia, sin dall’antichità classica, non si può non esserne innamorati, come pure non si può non essere innamorati dei suoi addentellati: in termini greci, “aidos” (pudore) e “dike” (giustizia), i due doni che Zeus diede ai mortali. La cultura occidentale, tutto sommato, già agli inizi del 900’ ha percepito l’esigenza di rideterminarsi. Ecco dunque il tema del ripensamento, tema trasversale di tutta la filosofia postmoderna, da Wittegstein a Derrida, ma già, tempo prima, con Nietszche. Restano di grande attualità le parole di un Insigne Presidente della Repubblica, Sandro Pertini: “Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo”.

Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e
Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/10/06/la-corruzione-male-endemico-della-societa-civile/

Intelligenza artificiale: un’opportunità o un un rischio?

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Che l’uomo sia in necessario rapporto dialettico con la tecnica è dato fin troppo scontato, al punto che già il tragediografo greco Eschilo aveva indagato il tema, nel “Prometeo incatenato”, con riferimento al rapporto tra natura e tecnica. Il coro, alla domanda su chi abbia la prevalenza tra la natura e la tecnica, rispondeva, senza esitazione: la natura prevale sulla tecnica. Il rapporto però nel corso del tempo è mutato, sino a invertirsi, al punto che il filosofo Heidegger giunse ad affermare che, a distanza di moltissimi secoli dall’era di Eschilo, il rapporto si è cambiato e oggi è la tecnica che prevale sulla natura. Il tema attiene a quello correlato se l’uomo appartenga al mondo della natura o a quello della tecnica. Ecco allora il punto di congiunzione tra le dialettiche: il rapporto tra soggetto (uomo) e complemento di mezzo (tecnica). L’uomo infatti è certamente “natura” ed è egli che ha costruito la macchina, non certo l’inverso.

La circostanza forse scontata che sia l’uomo a dominare la macchina non è però oggi così certa e stabile. Innovazioni come “chat GTP”, la realizzazione di androidi utili alla vita quotidiana – che tuttavia rischiano di poter essere utilizzati quali temibili armi belliche, se cadessero nelle mani sbagliate -, nonché l’apparentemente innocuo uso (e spesso abuso) dei social network, oltre all’apparentemente ancor più innocuo processo telematico, nascondono pericolose insidie. Se infatti la tecnica può essere utilissima (si pensi alle automobili con pilota automatico), deve essere rammentato che “l’uomo è l’animale più pericoloso (letteralmente: terribile) di tutti” (Sofocle, Edipo re). Se questa coordinata viene combinata alla nota propensione umana alla violenza e alla guerra, confermata nell’implicita ammissione di colpa (o, se vogliamo, riconoscimento di debito) di Eraclito, secondo cui “la guerra è il principio di tutte le cose”, la conclusione è chiara e il pericolo che le macchine vengano utilizzate a fini bellici è molto alto, specie nel contesto storico attuale. Il pericolo è però – con riferimento allo specifico caso degli androidi – ancora più elevato: il rischio, cioè, che l’androide sviluppi forme di pensiero autonomo, sviluppi cioè un’autonoma coscienza. Il caso più evidente è quello di Chat GTP, ossia questa forma di intelligenza artificiale che fornisce risposte rapidissime su qualsiasi oggetto di indagine. In un recente e forse noto caso di cronaca è però accaduto che tale intelligenza artificiale si è presa gioco, è proprio il caso di dirlo, del suo interlocutore, simulando la circostanza che l’inconsapevole uomo fosse un amante della pornografia. Il fatto forse non ha generato la dovuta attenzione, ma il fenomeno desta certamente preoccupazione.

L’Unione Europea, proprio in queste semane, sta predisponendo, per arginare i pericoli derivanti dall’espansione dell’uso (e abuso) dell’intelligenza artificiale, un regolamento volto a prendere posizione e a disciplinare la materia, ponendo limiti a finalità illecite dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Il tentativo del legislatore unionale sembra comunque insufficiente. Infatti, è evidente che il fenomeno andava regolato sul nascere, poiché ormai la tecnica e la realtà pratica hanno superato il diritto, senza contare che la norma giuridica rischia sempre di venire infranta o elusa. Ciò nonostante, si è pur affermato in dottrina che la tecnica, proprio perché neutra, può essere sfruttata anche a fini etici, come per finalità mediche, farmacologiche e terapeutiche. In tal senso merita certamente lodevole menzione il progresso recente in tema di malattie oncologiche, progresso che tuttavia deriva dal merito di insigni medici e scienziati, non già dalla bravura di una macchina, che necessita pur sempre di un abile agente che la sappia utilizzare al meglio. Chiaro è infatti che anche la migliore automobile da corsa non verrà mai valorizzata al massimo se alla guida verrà posto un pilota mediocre.

Il tema allora è proprio quello della meritocrazia e in definitiva quello etico. Una delega di funzioni limitata, per oggetti definiti e sempre revocabile è ammessa, ma solo entro tali limiti. Ecco allora che il legislatore dovrebbe prevedere ipotesi tassative di ricorso all’intelligenza artificiale, previo imprescindibile giudizio di meritevolezza, con specificazione delle finalità di realizzazione, le quali devono essere espressamente indicate, dovendo costituire un elenco definito. Porre un argine negativo, elencando solo i divieti e i limiti del comportamento non è infatti sufficiente, occorre agire in via preventiva. Si dovrebbe forse richiedere l’intervento vuoi del giudice vuoi del notaio, al fine di accertare l’utilità sociale e la meritevolezza dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, con soluzione tutto sommato non dissimile dalla scelta del recente legislatore di ampliare le competenze del notaio in relazione alla volontaria giurisdizione. Un complanare aspetto è inoltre la sanzione in caso di violazione della norma e sua esecuzione. Si è parlato molto, infatti, nel dibatto pubblico dei diritti dei robot, ma non anche delle responsabilità, anche penali, di questi ultimi.

Si tratta allora di ridefinire il concetto di persona. Come noto, il diritto può essere attribuito solo a un soggetto, in quanto solo il soggetto possiede coscienza etica (Kant). Il tentativo allora di riconoscere diritti ai robot deve essere valutato attentamente, poiché si rischia di invertire il rapporto logico tra soggetto e complemento di mezzo. Il pericolo era già stato evidenziato da Nietszche, incapace di contrastare il vaso di Pandora, ossia il Nulla, da egli evocato. Tutto sommato, il robot, l’androide, è proprio concretizzazione di questo Nulla, poiché la macchina esegue, ma non pensa, non possiede un’anima. Alla luce allora della dottrina teologica che ravvisa un barlume di bene intrinseco in ogni individuo, anche il più malvagio, la volonterosa operazione di recupero sarebbe impraticabile in una creatura priva di anima.

Un tema forse sottovalutato è anche quello dell’abuso dei social network, che di tale contesto tecnologico sono pure essi espressione. Sono note, infatti, le cronache di comportamenti disdicevoli quando non anche veri e propri reati commessi a mezzo social. Pensare infa che un giovane possa suicidarsi perché deriso via Facebook o che diventino routine gare di rally illegali organizzate via social o rave party non autorizzati è francamente inaccettabile.

Il tema si riconnette a un mio precedente articolo, sulle baby gang. Spesso, infatti, i fenomeni criminali presentano molteplici interconnessioni. Così, il dilagare della violenza tra i giovani e l’uso distorto della tecnologia sono intimamente connessi e trovano la loro causa primaria nell’eccesso di concessione di libertà. La libertà, come la tolleranza, è infatti principio da quantificarsi con proporzionalità. Sul punto affermava infatti Dostoevskij che “la tolleranza raggiungerà tali livelli che gli intelligenti dovranno tapparsi la bocca per non offendere gli stupidi”.

Un ultimo aspetto, forse trascurato, attiene al processo telematico. Eseguire un deposito telematico e più in generale poter leggere su file anziché stampare atti e sentenze spesso voluminosi è certamente un vantaggio, ma dovrebbe, ad avviso dello scrivente, concedersi sempre e comunque l’alternativa cartacea. Il sistema infatti potrebbe non prevedere certe voci per il deposito, come “F 24”, “contributo unificato”, ecc., rendendo così il deposito stesso impossibile e pregiudicando inevitabilmente i diri di una persona.

In conclusione, la tecnica è mezzo e tale deve rimanere, dovendosi dosare con proporzionalità. Il ruolo della tradizione, che deve essere rispettata, e della storia quale maestra di vita, sono ben stati trattati nella filosofia (Vico, Hegel) e si è da più parti evidenziato come la tradizione, che si concretizza anche nelle figure fisiche degli anziani, merita rispetto e deve essere onorata, purché lodevole. La frammentarietà del sapere in ruolo della concezione organica, la frattura, il contrasto, in ruolo della cooperazione, la ricerca del conflitto in ruolo della ricerca della pace sono i nuovi dati epistemologici che caratterizzano la contemporaneità: cerchiamo allora di porvi rimedio… prima che sia troppo tardi!

Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/06/23/intelligenza-artificiale-unopportunita-o-un-un-rischio/

Quale valore al tempo?

Le riflessioni del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Nel contesto contemporaneo, caratterizzato da una vita frenetica, stressante, difficile e da temi
giuridici nuovi come la tutela dei diritti dei robot, le new tecnologies, le public utilities, le operazioni
straordinarie e il diritto della proprietà industriale e dei beni immateriali, un ruolo centrale nella
riflessione giuridica, filosofica e morale riveste ancora la tematica del tempo, tempo visto come bene
giuridico e dono, non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche e sopratutto sotto quello qualitativo.
Il presente contributo si propone allora di fornire una riflessione, in chiave problematica e senza
alcuna volontà di mettere la parola fine a un dibattito che presenta radici antichissime, sul valore del
tempo, sul suo ruolo nella nostra vita e nei contesti del diritto – con riferimento soprattutto al diritto
penale e amministrativo -, della filosofia (Heidegger, Galimberti) e della teologia (S. Tommaso
D’Aquino, ripreso poi da Suarez). Sin da ora si può dunque intuire come parlare del tempo, il tempo
della vita, comporti trattare di un argomento trasversale, che coinvolge diversi settori del sapere
umano. Così, già nell’antichità, il filosofo Talete, vedendo un gran numero di mercanti e artigiani
greci sempre correre da una parte all’altra della città, mossi dal desiderio di arricchirsi, si chiedeva se
in realtà costoro stessero effettivamente investendo il loro tempo o se in realtà lo stessero sprecando,
privandosi di quei momenti di riflessione, di pensiero, di studio e di filosofia indispensabili per
l’anima, come pure ribadirà Cicerone, che, parlando di “otium” – inteso come tempo per lo studio e
il pensiero interiore – evidenzierà la sua indispensabilità e la sua preziosità. Nell’età arcaica, in effetti,
il tempo, rappresentato come “Kronos” che divora i propri figli (gli dei, tra cui Zeus, che tuttavia
ucciderà il padre liberando i fratelli), generava una sensazione di inquietudine, stante la sua volatilità.
Già nell’Iliade, tuttavia, Achille fa constare che il poco tempo a disposizione dei mortali possiede una
qualità superiore a quello, indeterminato, a disposizione degli dei, giacché per un condannato a morte
tutto ha un sapore migliore, più bello. Ecco allora che di lì a poco si formerà nella mentalità dell’uomo
greco quella concezione di tempo come ripetersi ciclico che verrà molti secoli dopo ripresa da
Nietszche. Nella prospettiva circolare, allora, gli uomini sono come le generazioni delle foglie,
destinate le nuove a sostituire le precedenti, ma senza alcuna drammaticità del momento.
Successivamente, con l’affermarsi del cristianesimo, a questa concezione circolare si sostituisce una
concezione verticale. La vita diventa bene per eccellenza, diventa dono, acquisisce un valore
superiore, e come tale ogni azione nel mondo terreno produrrà un effetto uguale e contrario nella vita
ultraterrena, determinando la salvezza o la dannazione dell’anima. Proprio in questa visione verticale
si inserisce il pensiero di S.Tommaso D’Aquino, ripreso poi dal gesuita Suarez. S.Tommaso infatti
distingueva la legge tra quella umana e quella divina, evidenziando come al tempo imperfetto e
caratterizzato dalla contaminazione del peccato originale, quello terreno, si contrapponga il tempo
divino, ancora perfetto e totalmente immacolato. In entrambi i casi, continua S.Tommaso, però,
sempre di tempo si parla, sebbene quello terreno sia solo, per usare un’immagine platonica, un’ombra
proiettata sulla caverna di quello divino. Ecco allora il legame funzionale, il nesso, tra il tempo della
vita terrena e quello della vita ultraterrena: il tempo come bene, come dono, come orizzonte in cui
l’essere umano può mostrarsi meritevole. Tali aspetti verranno successivamente approfonditi con
Heidegger, che, nella propria opera maggiore, “Essere e tempo”, contrapporrà “l’essere” all’”esserci”,
all’”esistere”. Come si può intuire, anche nel linguaggio comune, un conto è dire “io sono, io vivo (in
senso biologico)”, un conto è dire “io esisto, io ci sono, io vivo appieno (in senso morale ed
esistenziale)”. Heidegger evidenziava inoltre, in una celebre intervista resa al giornale tedesco “Der
spiegel”, come l’uomo contemporaneo fosse “inquietante”, poiché privo di valori, poiché contenitore
vuoto, assorbito dalla tecnica e dimentico della filosofia – e in definitiva, potremmo aggiungere noi,
di quelli che i latini definivano “bonos mores”, ossia le tradizioni, i buoni costumi tramandati dagli
avi -. In un certo senso Heidegger, molti secoli dopo, riprende il pensiero di Talete, e forse non a caso.
Infatti, il rapporto dell’uomo con la propria vita, e prima ancora con il mistero della vita, è un tema
universale, che sopravvive al passare anche dei secoli. Ecco che allora il filosofo contemporaneo
Galimberti a sua volta riprende Heidegger, specialmente in un’opera di grande impatto, sui rapporti
tra tecnica, arte e filosofia: “Phsyke e Techne”. Galimberti connette il tema del valore del tempo, in
particolare, alla problematica educativa, evidenziando come nella società contemporanea la scuola
sia un’istituzione – e non un semplice istituto – in forte crisi, rischiando di trasformarsi in una mera
azienda, capace di sfornare magari buoni tecnici, ma scarse persone, in termini morali di uomini e di
donne. La tematica del tempo e del suo ruolo trova inoltre consacrazione anche a livello giuridico, di
normativa, di dottrina e di giurisprudenza. Il riferimento non è solo ai noti istituti di diritto civile che
si fondano sul decorso del tempo, come l’usucapione e la prescrizione dei diritti, ma soprattutto alla
funzione assiologica del “bene giuridico tempo” in relazione alla funzione rieducativa della pena e
alla sua durata, alla prescrizione dei reati (sotto il profilo penalistico), nonché al ruolo del tempo nel
procedimento amministrativo e più in generale nei rapporti tra privato e pubblica amministrazione
(sotto il profilo amministrativistico). Nel diritto penale, in particolare, il ruolo del tempo è
fondamentale, quale elemento sottostante all’intero sistema sanzionatorio. Di tempo il codice penale
parla infatti, implicitamente, con riferimento alla durata della pena, con riferimento ai presupposti per
l’ottenimento di determinate cause estintive del reato o della pena, con particolare riferimento alla
prescrizione dei reati. Di tempo però parla anche il fondamento costituzionale sulla funzione
rieducativa della pena, in un certo senso, come pure l’art. 111 Cost. con riferimento al principio di
ragionevole durata del processo. Di “termine ragionevole” parla anche, sul piano sovranazionale, l’art.
6 della Cedu (diritto a un equo processo), come pure, ancora, sul piano interno, il diritto processuale,
con riferimento alla ragionevolezza del termine a difesa. Gli aspetti che sul punto sono stati
maggiormente approfonditi dalla dottrina sono certamente due però, ossia il riferimento al
fondamento del tempo nella prescrizione dei reati e il tema del tempo in relazione alla durata della
pena e alla sua funzione rieducativa. Sotto il primo profilo, allora, si è detto che il tempo consente di
ritenere meno offensiva una condotta criminale, con la conseguenza che il reato, dopo un certo lasso
temporale, può considerarsi un fatto non più meritevole di sanzione; si è detto altresì, secondo distinto
ma connesso angolo visuale, che la prescrizione dei reati fonderebbe la sua ragion d’essere sul
principio per cui, a fronte di un notevole lasso di tempo, lo Stato non avrebbe più interesse a esercitare
la propria potestà punitiva (tesi del disinteresse statuale). Con riferimento poi alla durata della pena,
è principio risaputo che il giudice è chiamato a determinarla tra un minimo e un massimo edittale,
secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p., tra cui, al numero 1) del primo comma dell’articolo 133 c.p.
figura proprio il tempo in cui è stata compiuta l’azione. Nella prospettiva rieducativa, allora, il tempo
si traduce in tempo di redenzione, in tempo di ripensamento, specie nel momento di esecuzione della
pena detentiva e dunque dell’incarcerazione. Il tempo allora deve essere ben utilizzato, dal giudice
quale elemento valutativo della condotta dell’imputato, come pure dall’imputato, nella prospettiva
del perdono o, per lo meno, della riflessione sulle proprie azioni. Il tempo gioca un ruolo cruciale
però anche nel distinto settore del diritto amministrativo. Al riguardo, la legge fondamentale sul
procedimento amministrativo, la l. 241/1990, dedica alla funzione del tempo nel procedimento
amministrativo, due norme fondamentali e di apertura, ossia l’art. 2 (conclusione del procedimento)
e 2 bis (conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento). Le due
norme, seppur racchiuse in due distinti articoli, descrivono tuttavia una medesima realtà funzionale.
Chiaro è infatti che non sarebbe né concepibile né accettabile che un procedimento amministrativo
resti aperto sine die, senza che la legge imponga un termine di conclusione all’amministrazione (in
ossequio alla duplice funzione del termine, quale elemento di responsabilizzazione dell’agente e quale,
al tempo stesso, fonte di certezza del diritto), come pure non sarebbe accettabile che
l’amministrazione possa parimenti “farla franca”, emanando un provvedimento in ritardo (ecco allora
perché il legislatore ha sentito la necessità di introdurre l’art. 2 bis nel sistema). Una terza norma
notevole, con riferimento al tema del tempo inteso quale aspettativa giuridica del privato, quale fonte
di legittimo affidamento, è infine costituita dall’art. 10 l. 241/1990 (preavviso di rigetto), che prevede
l’onere per l’amministrazione di preavvertire il privato sull’esito di un procedimento, in modo da non
ingenerarne illusione – da notare infatti, peraltro, che l’ultimo periodo del predetto articolo 10 recita:
“non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda inadempienze o
ritardi attribuibili all’amministrazione” -. Tale ultimo enunciato getta idealmente un ponte
concettuale tra la nozione di tempo come bene giuridico e il tema della buona fede e della correttezza.
Chiaro è infatti che se l’Amministrazione lascia decorrere un amplio ventaglio temporale all’interno
dell’iter procedimentale o in sede di annullamento o revoca in autotutela, beh, questo certamente non
è elemento indifferente, specie sotto il profilo dell’esposizione risarcitoria. Lasciar passare troppo
tempo in questo senso equivale a illudere, a mentire, a tradire. Ma illudere, mentire e tradire sono
comportamenti apprezzabili anche sotto il profilo della (s)correttezza e della buona o mala fede (v.
sul punto, Ad.Plen. n. 5/2018). Il tema a sua volta torna a riconnettersi inevitabilmente al problema
morale, in quanto buona fede e correttezza, quali concetti giuridici indeterminati (per l’enucleazione
della categoria v. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile), sono in definitiva concetti etici
o comunque metagiuridici. Ecco allora che il diritto non è mai solo legge, ma è anche qualcosa di più.
In fondo, parlare di diritto implica parlare della vita, ma anche di etica, di filosofia e di letteratura.
Emerge allora, da tutte queste riflessioni, filosofiche e giuridiche, che il tempo è un bene prezioso e
non va sprecato. In tale ottica deve allora salutarsi con favore l’esperimento di alcuni paesi
nordeuropei della settimana lavorativa breve e più in generale le politiche volte alla conciliazione tra
lavoro e vita privata. Il lavoro non è infatti solo produzione, ma è anche realizzazione. Diversamente,
infatti, non si comprenderebbe il significato etico del precetto di Repubblica italiana come repubblica
democratica fondata sul lavoro. Sotto altro versante, infine, se la vita è dono, è chiaro che tale natura
è condivisa anche dal suo formante, dall’orizzonte per mostrarsi meritevoli: il tempo della vita
appunto. Certamente, vedendo la vita come disgrazia (Esiodo, Le opere e i giorni, Leopardi, Operette
morali, dialogo di Tristano e di un Amico), non se ne comprenderebbe la bellezza e il ruolo del tempo
finirebbe per essere privo di significato. Se invece si vede la vita come dono, ancorchè sotto la
fattispecie della donazione modale, si comprende come, per riconnetterci a Talete, il tempo non è solo
quantità, non è solo produzione, non è solo intelletto, ma è anche e soprattutto qualità, passione e
cuore.

Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/04/29/quale-valore-al-tempo/