Un applauso per Bobo: Gustavo Cioppa ricorda Roberto Maroni

Il magistrato è stato il suo Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Oggi, se n’è andato Roberto Maroni,  un grande politico e un amico.  Una persona con cui ho avuto il privilegio di lavorare per quasi tre anni, nel corso dei quali ho potuto apprezzare il suo impegno  nel governo della “Res pubblica”.

Bobo, così gli piaceva essere chiamato, davanti a ogni difficoltà – grazie al suo temperamento pacato e riflessivo, al suo buon senso, alla sua progettualità e alla sua visione lungimirante – riusciva a trovare delle soluzioni condivise, anche perché era pienamente consapevole del valore della squadra. Anche nei momenti di tensione, che pure non sono mancati, mai l’ho visto scomporsi, ma – attraverso la mediazione e la discussione – riusciva a individuare la via che meglio si confacesse all’interesse della comunità. Ed è proprio in questi momenti che ho compreso pienamente il valore, le difficoltà e, soprattutto, lo spirito di servizio che deve necessariamente avere l’uomo che si dedica, come Roberto, all’ars politica. In svariati momenti ha dovuto prendere delle decisioni rapide, in brevi istanti, e riusciva a fermarsi e a comunicare  che cosa fare, prediligendo, sempre e comunque, l’interesse della comunità.

Sicuramente un grande politico, ma anche un musicista che si dedicava a suonare l’organo di Hammond. Interessato  a tutte le altre espressioni artistiche e  che aveva, comunque, un profondo amore per la cultura.

Ha vissuto, a causa di vicende giudiziarie, per sei lunghi anni, sotto l’incubo del processo, con grande dignità e sofferenza, perché  innocente e consapevole di non aver commesso alcun reato. Il suo profondo senso delle Istituzioni non gli ha fatto perdere fiducia nella giustizia e, anche se non poteva che sentirsi vittima di ingiustizia, non è mai voluto apparire come  “vittima” di un errore giudiziario. Alla fine, come era evidente a tutti noi  che lo conoscevamo bene, le accuse sono cadute e si è arrivati a un accertamento della sua innocenza. Quindi, giustizia è stata fatta. Purtroppo, il procedimento gli ha causato delle ferite che non si sono mai rimarginate.

Con queste poche parole provo a trasmettere il mio ricordo, indelebile nella memoria, di un grande politico e di un Amico eccezionale, che mi ha trasmesso tanto e che non dimenticherò mai.

Ciao Bobo.

Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2022/11/22/un-applauso-per-bobo-gustavo-cioppa-ricorda-roberto-maroni/

Non basta studiare il fascicolo. Bisogna indagare la persona

“Un’ingiustizia commessa in un solo luogo è una minaccia per la giustizia in ogni luogo”. Gustavo Cioppa, più di 40 anni nella magistratura (procuratore capo a Pavia e sostituto procuratore generale a Milano tra gli incarichi), scomoda Martin Luther King per fotografare “la gravità del fenomeno”. “L’errore esiste, ma deve essere fisiologico e non patologico”, aggiunge l’ex sottosegretario di Regione Lombardia durante la presidenza Maroni.

Dove sta la patologia che determina tanti errori?

“La persona va studiata a 360 gradi e i magistrati hanno grande responsabilità: la misura cautelare deve arrivare dopo un attento studio del fascicolo. Il magistrato deve avere la capacità di capire in profondo la persona. Non si deve essere superficiali, ma si deve approfondire per evitare di utilizzare uno strumento così pesante come il carcere, che è la “extrema ratio“”.

Come dovrebbe comportarsi un magistrato?

“L’episodio su cui indaga non può essere avulso dal resto della vita della persona stessa. Oltre al fascicolo è necessario approfondire la personalità dell’individuo indagato”.

È adeguata la riparazione dell’errore?

“Nessun tipo di riparazione finanziaria riesce a coprire completamente il danno subìto. Una persona in carcere subisce un cambiamento radicale stravolto da scelte altrui: prima si è a proprio agio e poi si è in un ambiente che diviene invivibile. Sono poche le persone che riescono a reinventarsi dopo la rottura di un percorso. Il carcere è come una frana che interrompe una strada: una parte della persona muore”. L.B.

Fonte: https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/non-basta-studiare-il-fascicolo-bisogna-indagare-la-persona-1.8177925

Elisabetta II, una regina assolutamente al di fuori del comune

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Abbiamo appena assistito – in grandissimo numero – ad un evento eccezionale: i funerali di Elisabetta II. Uno spettacolo, pur luttuoso, ma non per questo meno spettacolare. Verrebbe voglia di dire, col Manzoni “né sa quando una simile orma di piè mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà”. E già, lo spettacolo era sontuoso, ma i quattro miliardi di persone  – i rimanenti non possedevano il televisore o non avevano disponibile  Internet – non erano attratti, se non in minima parte, dallo spettacolo: desideravano rendere omaggio ad una piccola donna, quasi centenaria, che era stata una grandissima regina, già in vita passata alla storia. Abbiamo visto file chilometriche di persone che volevano rendere personalmente omaggio alla defunta, sottoponendosi a lunghissime ore di attesa. Non è esagerato osservare che un evento simile non s’era mai visto: eppure, tanti monarchi, presidenti, persone illustrissime muoiono ogni giorno, avendo meritato  stima ed affetto generali.

E, allora, perchè la morte di Elisabetta ha suscitato tanta attenzione, tanta commozione?  Ebbene, la risposta è inequivoca: per le qualità della persona, assolutamente al di fuori del comune. Si fosse trattato di un presidente piuttosto che di un regnante, di un grande scienziato o di un benefattore dell’umanità, lo spettacolo sarebbe stato diverso, ma la commozione sarebbe stata la stessa.

Ebbene, cosa aveva Elisabetta di tanto speciale? Anzitutto la volontà consapevole di essere – lei regina – al servizio della democrazia (la più antica dell’età moderna) e dei suoi connazionali; la capacità di tenere uniti – in tempi di grandissimi cambiamenti – tutti i popoli del Commonwealth, autonomi ed indipendenti, ma uniti dal legame con la regina, come ha documentato ampiamente la cerimonia funebre; un’interpretazione del ruolo mai sopra le righe con un esemplare spirito di dedizione al suo compito.

Ha attraversato due secoli: quasi tutto il ‘900 ed i primi, tumultuosi, ventidue anni del nuovo millennio. Ha vissuto la seconda guerra mondiale a Londra, con i genitori, sotto le bombe tedesche. Giovane regina, è stata sempre accanto al suo popolo nell’ardua opera di ricostruzione postbellica. Ha assistito, partecipe, all’inevitabile dissoluzione dell’impero ed all’assestamento, tutt’altro che facile, del già citato Commonwealth. Ha consigliato, ricevendoli quasi quotidianamente, decine e decine di Primi Ministri. Ha vissuto, senza mai scomporsi, ma con vigile attenzione, la crisi del “Canale di Suez”, le guerre arabo-israeliane, che vedevano cospicui interessi britannici in gioco, la guerra delle Falkland  combattuta, nell’altro emisfero della terra, dalle forze armate inglesi contro quelle argentine. E si potrebbe a lungo continuare nella elencazione.

Sempre e comunque la regina ha costituito per gli inglesi un fermo e sicuro punto di riferimento. Ha sepolto il padre, la madre, la sorella, il marito con lo stesso, grave contegno di lutto e di dolore, testimoniando un animo fortemente addolorato, ma uno spirito sempre saldo e risoluto. E, allo stesso modo, ha affrontato le difficoltà cui una grande e numerosa famiglia va spesso incontro.

Al centro di tutto sempre lei, la piccola Lilibeth, chiamata a risolvere i problemi di tutti. Che altro dire di una regina inimitabile? Tanto altro ci sarebbe da dire. Anzitutto, che è stata degna  quanto a determinazione e consapevolezza del proprio ruolo, naturalmente in tempi e costumi diversissimi, quant’altri mai, della omonima sua, figlia di Enrico VIII  e di Anna Bolena, che regnò quattro secoli prima.

Ha lasciato un inimitabile esempio di probità, di vita austera ed aliena da ogni frivolezza, di grande donna e di grande regina, cui hanno sempre guardato, susseguendosi nel tempo, tutti i grandi della terra. E, allora, bandiere abbrunate non solo sulla Torre di Londra e su tutti gli edifici pubblici d’Inghilterra, ma anche nel cuore di tutti coloro che sanno apprezzare un animo nobile e uno spirito di serena, assidua compostezza: di dignità, alfine, davvero regale.

Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2022/10/01/elisabetta-ii-una-regina-assolutamente-al-di-fuori-del-comune/

Baby gang criminali, un triste fenomeno della nostra società

“Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; ma l’indifferenza dei buoni”

Martin Luther King

Custodite ipsum excelsum“: le parole mi risuonano ancora nella mente. Era l’incipit del discorso del Procuratore Generale Pier Luigi Dell’Osso all’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2015. “La massima attenzione, senza soluzione di continuità, occorre rivolgere alle realtà criminali, specie a quelle inedite, dei Paesi più a rischio, come gli stati dell’America Latina” proseguiva il Procuratore Generale: “Spesso quelle triste realtà prefigurano quanto potrà accadere nel nostro Paese. Le ‘pandillas’ giovanili, che già rapinano e spaventano le popolazioni civili delle grandi città del Messico, della Colombia, dell’Ecuador, e via dicendo, rappresentano una emergenza criminale tutt’altro che virtuale, la quale potrebbe facilmente attecchire in Italia, e ciò perché esistono le precondizioni: difficoltà economico- sociali, forte malessere giovanile, disoccupazione crescente. È proprio questo l’humus favorevole alle aggregazioni giovanili, che si danno alla delinquenza di strada, più pericolosa perfino della grande criminalità organizzata, stanti la composizione eterogenea, variabile e la scarsa coesione che le caratterizza. Cosi si verificano i sequestri di persona così detti lampo, entrando fulmineamente nelle auto ferme in lunghe colonne, della circolazione quotidiana, e costringendo il conduttore a dirigersi verso casa per poter fare razzia di valori. Una variante più semplice e meno rischiosa è la rapina consumata direttamente e velocemente in auto. Gli episodi del genere accadono a migliaia, senza tregua. La specialità delle bande giovanili, delle ‘pandillas’ è, comunque, costituita dai gravi delitti compiuti nei locali pubblici, nelle discoteche, talvolta nelle banche meno protette. E la prospettiva di un assassinio non è certo remota, ma fa parte della quotidianità. Le ‘pandillas’, specie quando composte da numerosi membri, non disdegnano, naturalmente, lo spaccio di droga al dettaglio, si intromettono negli spazi liberi, lucrosissimi, dell’emigrazione clandestina, si scontrano ferocemente fra loro per il predominio territoriale. Ebbene, una realtà siffatta può agevolmente verificarsi in Italia, se non si adottano sollecite iniziative di prevenzione, d’ ‘intelligence’, di approfondimento professionale del fenomeno criminale”.

Un fenomeno che si verifica da tempo nel nostro Paese

Il discorso del Procuratore Generale Dell’Osso proseguiva con il richiamo di dettagli, specifici e significativi, della ferocia delle succitate bande di giovani sbandati, operanti ai margini della società, senza alcun riferimento che non sia la predazione, la violenza, il delitto. Quel che mi preme sottolineare è che tale fenomeno, illustrato e paventato dal Procuratore Generale Dell’Osso con tanto anticipo, ha, già da non poco tempo, principato a verificarsi nel nostro Paese, specie al nord, con scontri fra bande nostrane, con la non sporadica presenza di stranieri privi di risorse e di opportunità di lavoro, sovente disperati. Non siamo ancora, se non in alcuni casi, agli assalti sistematici agli automobilisti, ma occorre far di tutto per evitare tale imbarbarimento. La lezione proveniente da altre realtà geografiche deve esserci di duro monito, come ha, autorevolmente stigmatizzato il Procuratore Generale Dell’Osso in quel lontano 2015. Ho voluto iniziare questo articolo su un tema così importante citando il Procuratore Generale di Brescia, Magistrato di grande coraggio, esperienza e capacità professionale, che nel discorso di Inaugurazione dell’Anno Giudiziario del 2015 evidenziò in maniera incisiva e preveggente la situazione del Sud America, riferita alle conseguenze in Italia, riguardo le bande di giovani. Nell’ambito della devianza giovanile, infatti, uno dei fenomeni più allarmanti è quello delle così dette bande giovanili, conosciute anche come “baby gang”, sono dedite alla microcriminalità: composte da giovani, a volte minori, indifferentemente italiani e immigrati di seconda generazione, appaiono come gruppi caratterizzati da una struttura non gerarchica, agiscono in modo improvvisato ed estemporaneo. In questo contesto, però, si differenzia il fenomeno delle “gang” sudamericane, le “pandillas”, queste rappresentano la fonte di preoccupazione maggiormente importante. Si tratta, come anticipato, di organizzazioni che vedono la loro nascita nel Sud America per poi diffondersi negli Stati Uniti e in Europa, in Italia la loro presenza è ampiamente conosciuta a Milano dove esercitano anche, quasi fosse un videogioco, una violenza casuale e immotivata nei confronti di vittime assolutamente innocenti e inoffensive. Si tratta di organizzazioni che solo latamente si ispirano ai gruppi originari d’oltreoceano e si sviluppano sul territorio italiano in maniera autonoma. Le numerose inchieste giudiziarie nel nostro Paese hanno cercato di sradicare il fenomeno e porre così fine alla operatività di queste organizzazioni. Ma, nonostante gli arresti e le condanne, i gruppi sembrano essere ancora attivi.

In Sud America l’origine di queste associazioni per delinquere

Queste associazioni per delinquere, come predetto, hanno origine in Sud America, dove reclutano giovanissimi tant’è che una di queste, la “Barrio 18”, è conosciuta anche come “l’esercito dei bambini” per la propensione ad assoldare anche minori. Probabilmente si tratta di compagini formate perlopiù da soggetti che non sono stati ammessi in organizzazioni più importanti come i Cartelli della Droga e si organizzano sul territorio per gestire lo spaccio di sostanze stupefacenti al dettaglio e imporre il proprio dominio venendo anche spesso in conflitto con altre bande. Il fenomeno si espande, come predetto, sia negli Stati Uniti che in Europa, l’immigrazione economica, di prima o seconda generazione, fornisce un bacino di disperati utili per il reclutamento, i giovani soggetti, attratti dalla possibilità di facili guadagni, si fanno facilmente irretire, ove, gioca un ruolo anche un senso di appartenenza (in genere gli associati provengono tutti dallo stesso paese) e di emulazione. Come anzidetto la gestione del traffico di stupefacenti, conseguente vendita al dettaglio e il dominio del territorio caratterizzano l’operatività delle bande, che talvolta si determina con suddivisioni in zone di influenza. Spesso i rapporti tra i diversi sodalizi sono cruenti e abbiamo assistito anche ad omicidi, tuttavia, talvolta si associano per migliorare l’efficacia delle loro azioni, spartendosi così il potere. I processi e i provvedimenti di reclusione non riescono a circoscrivere il fenomeno: bisognerà, quindi, porsi dei quesiti in ordine a quale sia l’atteggiamento giusto per, se non eliminare, almeno ridimensionare il problema. Sarebbe essenziale poter assicurare a questi giovani la libertà dal bisogno, è indubbio che se ci fosse la possibilità di procurarsi il sostentamento in modo onesto, riusciremmo a togliere uno degli elementi di maggior presa delle organizzazioni, perché in fondo questi giovani oggi non hanno nulla da perdere; nell’ambito della prevenzione la scuola ha un ruolo importante, anche perché spesso le famiglie, ammesso siano presenti, non forniscono nessuna garanzia riguardo la formazione dei ragazzi. Negli Stati Uniti vengono organizzati negli istituti scolastici degli incontri con ex appartenenti alle bande che hanno trovato riscatto e si sono reinseriti pienamente nel consesso della società civile. Il racconto del vissuto degli ex associati ai sodalizi criminali può essere più efficace nei confronti dei coetanei di esposizioni troppo teoriche operate dagli educatori, che pure hanno la loro importanza considerato che hanno contatti quotidiani con gli studenti, ma utilissimi sono pure gli interventi di alcune Ong che si occupano specificatamente di tali questioni.

Il percorso di recupero di questi giovani

Se pure la prevenzione gioca un ruolo fondamentale ci si interroga altresì su come sia possibile il recupero di questi soggetti, la detenzione sovente acutizza il problema, in quanto all’interno delle carceri le organizzazioni continuano ad esistere e a formare gruppi di influenza anche se i componenti risultano ristretti. In questo scenario l’essere condannati e subire i provvedimenti giudiziari è addirittura motivo di vanto tra gli associati che sono soliti tatuarsi, quasi fossero dei gradi, rappresentazioni afferenti alle condanne subite. Il compito della Giustizia Riparativa è davvero arduo, ma sembra l’unica strada percorribile in quanto la risposta repressiva, come abbiamo visto, non riesce ad arginare il fenomeno e, in qualche modo, forse lo aggrava perché gli appartenenti alle bande, una volta tornati in libertà, tornano ad agire nei sodalizi criminali con ancora maggiore determinazione e, forti, della loro esperienza come detenuti, hanno una grande influenza sui neofiti. Bisognerà intendere questi fenomeni criminosi non solo come trasgressione di una norma, ma come accadimenti che determinano la rottura di prospettive e legami sociali condivisi. E’ necessario, quindi, adoperarsi per la rielaborazione del conflitto e il consolidamento del senso di sicurezza collettiva. Il giovane dovrà cercare possibili soluzioni agli effetti del reato e impegnarsi per la riparazione delle conseguenze che ha cagionato. Soprattutto il reo deve prendere coscienza di se stesso e ripensare un nuovo codice di valori personali e sociali. Certo non basta, servono interventi concreti affinché sia offerta una possibilità di riscatto: se a fine pena il ragazzo non ha possibilità di trovarsi una occupazione ricadrà, giocoforza, nuovamente sotto l’influenza delle “gang” criminali. Infine, queste persone non devono essere emarginate dalla comunità perché altrimenti interagiranno solo tra i loro simili invece che integrarsi. Spesso privi di famiglia, questi così detti devianti cercheranno quei legami affettivi di cui sono privi all’interno delle organizzazioni che sembrano, a prima vista, offrire un legame di appartenenza che sublima la mancanza di affetti e di vere relazioni amicali e sociali. In questo scenario, quindi, appare urgente recuperare questi soggetti anche perché può essere solo di aiuto per la società poiché significa impedire la reiterazione dei reati, ciò in un giusto equilibrio tra la necessità della riabilitazione e l’esigenza di sicurezza sociale, perché, non dimentichiamolo mai, tutto ciò che riguarda i giovani (specie i minori) ha una grandissima rilevanza: attiene direttamente al futuro della società. E, se è bene conoscere il passato per gestire adeguatamente il presente, del tutto imprescindibile si delinea la capacità di proiettarsi, con sagacia e lungimiranza, sul futuro.

Dott. Gustavo Cioppa (Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: https://www.ilticino.it/2022/07/27/baby-gang-criminali-un-triste-fenomeno-della-nostra-societa/

L’alternativa alla pena per il minore a rischio

Devo ringraziare sentitamente l’avvocato Marco Campora, Presidente della Camera Penale di Napoli, per avermi invitato come relatore al convegno di mercoledì “L’alternativa alla pena per il minore a rischio”; incontro che ho fortemente promosso trattandosi di un argomento a me molto caro.
Abbiamo affrontato il tema delle alternative alla pena carceraria e della giustizia riparativa, evidenziando quanto possa rivelarsi complesso il percorso rieducativo, specie in quegli ambiti caratterizzati da un assoluto vuoto di valori, quali i contesti “mafiosi” in senso lato. Argomenti estremamente attuali che interessano tutta la collettività: la violenza e l’illegalità è un danno massimante grave laddove investa le nuove generazioni. E come emerso dal convegno, la proliferazione della criminalità giovanile può essere contrastata non solo e non tanto con la repressione, bensì con la prevenzione, anche attraverso un modello innovativo di “welfare educativo”, mediante azioni e progetti concreti.
Devo infine porgere i miei complimenti ai relatori, tutti seriamente impegnati su questi problemi di grande attualità.

Studio e determinazione per conseguire un meritato traguardo

Siamo orgogliosi di nostro figlio Paolo (Paul) Cioppa per il prestigioso ruolo offertogli da M&A globale di Citigroup a New York. Sicuramente la sua esperienza come “Adjunct Professor of Law” presso la Fordham University, così come il suo lungo percorso formativo a UC Berkeley dove ha conseguito master e dottorato, oltre a 16 anni di esperienza lavorativa negli Stati Uniti, hanno contribuito al raggiungimento di questo importante traguardo professionale.

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Il Covid e la Storia

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Si avverte subito, accostandosi al “tema Covid”, una sorta di profonda ritrosia ad addentrarsi in tal tema: una ritrosia scaturente dall’immenso vociare che si alza nel mondo, dalle teorie che si snodano come i grani d’un rosario, dalla minimizzazione, dalle semplificazioni, dalle previsioni apocalittiche, dalle predizioni bianche e da quelle nere, senza alcuna attenzione per i colori intermedi. È, forse, il caso, allora, di riflettere – astenendosi rigorosamente da tentazioni di entrare in dispute su versanti medici, sociologici, tuttologici, che costituiscono afflizione quotidiana – su qualche precedente storico e su alcuni numeri, che possono aiutare a farsi un quadro “poco fabulizzato” delle vicende che tanto stanno condizionando la nostra vita, ormai da tanto tempo. Parlando di pandemie, la mente corre subito a quella della prima metà del ‘300, la tristemente famosa “peste nera del XIV secolo”, che imperversò per anni, dopo aver avuto origine in Asia, intorno al 1330. Nei successivi anni, vicini alla metà del secolo, il contagio dilagò in Europa, mietendo vittime. I numeri dei contagiati e dei morti, tanto più con le rilevazioni quanto mai approssimative del tempo, non sono certo precisi, ma restano pur sempre significativi di una sorte di apocalisse, che sbigottì gli abitanti del pianeta. Pur con le già citate approssimazioni, s’è calcolato che la peste nera uccise oltre 20 milioni di persone, ovverossia circa un terzo della popolazione europea. Delle vittime in Asia, dov’era nata, ed in Africa non si rinvengono rilevazioni di sorta. L’impatto sul livello della popolazione mondiale fu devastante e ci volle quasi un secolo per colmarlo. Saltando in avanti di quasi tre secoli, si approda al tristissimo periodo, dal 1629 al 1633, in cui “la peste bubbonica” flagellò tutta l’Italia settentrionale e, prima ancora, il territorio svizzero. Chi non ricorda la perdita, nel Nord Italia, di oltre un quarto della popolazione? E chi non ricorda le indimenticabili pagine manzoniane della peste a Milano, che perse addirittura i tre quarti della sua popolazione. Anche codesta pandemia atterrì le popolazioni colpite: tanto più, per rimanere all’Italia, che non mancò una successiva epidemia, che devastò l’Italia meridionale. Sempre sull’onda dei flagelli di bibliche dimensioni, sia nella percezione popolare sia nelle dimensioni che è stato possibile calcolare, si staglia sinistra la pandemia di “febbre spagnola”, che si abbatté su popoli già falcidiati dalla prima guerra mondiale: questa, dopo quattro anni e mezzo di durata, provocò la morte sui campi di battaglia di circa dieci milioni di soldati ed un numero doppio di feriti, ai quali si aggiunse circa un milione di civili morti ed oltre cinque milioni di feriti. Tutti i paesi del mondo stavano uscendo gemendo dalle macerie della guerra, quando furono investiti da un flagello ancor, se possibile, più terribile: l’epidemia di “febbre spagnola”, causata da un virus con varianti assai aggressive. E perchè più terribile? Ebbene, perchè provocò una ecatombe maggiore di quella provocata dalla Prima guerra mondiale. Le stime più prudenti calcolano oltre 20 milioni di morti: quelle più estese parlano di cento milioni di morti. La cifra più verosimile, tenuto conto di tanti fattori, oscilla intorno ai 50 milioni di morti. Nella sola India, si è parlato di quasi 17 milioni di morti. E una spiegazione della terribile letalità di un virus che devastava i polmoni, portando a morte rapida, è stata individuata nelle condizioni di complessivo deterioramento fisico, nella mancanza di idonea nutrizione e   nelle misere condizioni di vita indotte dalla guerra. Ma c’è un aspetto sul quale l’opinione pubblica non pare essersi troppo soffermata: l’arco temporale fra la primavera del ’18 e quella del’ ’20 fu caratterizzato da una cospicua anomalia climatica. Ebbene, un secolo dopo, siamo alle prese con un’altra pandemia che spaventa. E qualcuno negherebbe che, specie negli anni più recenti, l’uomo ha fatto, in qualche modo scempio dell’equilibrio climatico? La sola causa? No di certo. Spaventose aggressioni virali sono il frutto di varie componenti, qual più, qual meno grave. Una semplice coincidenza? Potrebbe darsi. Ma, sovente – allorché nel valutare accadimenti storici precedenti si è, a tutti i costi, voluto parlare di coincidenze – sotto le coincidenze si è rimasti sepolti. Ed oggi? Oggi, ancora una volta, l’umanità è scossa da una pandemia che non risparmia nessuno, salvo che non si voglia dare attendibilità alla reiterata proclamazione, da parte della Corea del Nord, di totale assenza del contagio sul suo territorio.
Del Covid-19 è stato detto di tutto e di più, ancorché il virus, del tutto “immune” alle affabulazioni degli umani, stia continuando a variare ed a seminar lutti. Che dire, allora? Concludere sul filo del discorso fin qui seguito: storia e numeri. Quanto a questi ultimi, colpisce il dato degli Stati Uniti d’America: oltre 800.000 morti finora. Con il Covid in pieno sviluppo, a fronte di poco più di 650.000 morti, complessivi, di pandemia “spagnola”, c’è – par ragionevole osservare – di che riflettere. È ragionevole che, come sempre, la scienza è e sarà l’ancora di salvezza. Epperò, non si può fare dello scientismo il totem salvifico in assoluto. Intorno alla scienza deve posizionarsi una serie di componenti sintonici, capace di rendere più agevole e conchiudente il cammino della scienza.E poi? Poi, non si può dimenticare la forza onnipotente della Natura, che Dante traduce in chiave fideistica, con sublime poesia: “STATE CONTENTI, UMANA GENTE, AL QUIA; CHÉ SE POTUTO AVESTE VEDER TUTTO, MESTIER NON ERA PARTURIR MARIA”.

Dott. Gustavo Cioppa

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2022/04/09/il-covid-e-la-storia/

La Costituzione è un pezzo di carta

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità” (Piero Calamandrei)

Chissà perché, quando si inscena una protesta, l’argomento più abusato è la difesa della Costituzione, nella quale – si dice – sono scolpiti i baluardi che proteggono, senza eccezione, tutte le libertà oggetto di rivendicazione.
Confesso che l’automatismo in questione mi ha sempre lasciato perplesso, apparendomi frutto di una presunzione fondata più che sulla lettura del testo costituzionale, sulla creatività di qualche fantasioso interprete. La Costituzione, al pari di ogni legge – dalla quale differisce esclusivamente per la posizione nel sistema delle fonti – non è il lasciapassare per le velleità di chi la sventola, ma un complesso di regole, prevalentemente a contenuto precettivo, che definiscono l’intero ordinamento giuridico di un certo Paese. I contenuti del testo esprimono, in termini generali, concetti consolidati tradotti in norme vincolanti per tutti: per il legislatore che deve impiegarli nelle leggi ordinarie; per il governo cui spetta realizzarli; per i giudici sui quali incombe il dovere di garantirne l’applicazione. I cittadini, le persone, sanno, o dovrebbero sapere, che la Costituzione è, anche, il limite al potere dello Stato. La sintesi che precede consente di cogliere lo scopo che anima chi si contrappone ai provvedimenti emanati dal legislatore, dall’esecutivo o dai giudici: riaffermare la Costituzione violata. Questa, però, è una semplice prospettiva, un punto di vista che esprime soltanto la posizione di chi decide di protestare, magari leggendo in Costituzione ciò che, in Costituzione, non è scritto. Ho letto della intenzione di dare vita ad un Comitato di liberazione nazionale, come accadde in passato. Fedele al mio impegno di non entrare nel merito delle questioni, mi limito a sottolineare che, pur al netto della eccessiva enfatizzazione, la Costituzione non è una bandiera da agitare per finalità politiche, ma – come ha detto Piero Calamandrei – è “un pezzo di carta” sul quale è scritto che cosa si può fare quando i provvedimenti (di legge, amministrativi, giudiziari) sembrano contrastarla. I giuristi, queste cose, le sanno. Dovrebbero anche dirle, in maniera chiara e comprensibile perché non accada che talvolta vengano scambiati per semplici comizianti.

Dott. Gustavo Cioppa
Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2022/01/11/la-costituzione-e-un-pezzo-di-carta/

La pena non basta: serve una seria riabilitazione del reo

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“Credo che il carcere debba essere un luogo di rieducazione e avere, dunque, le caratteristiche delle istituzioni educative, attente a tirar fuori dallo studente ogni elemento che gli permetta di diventare più utile alla società”
(V. Andreoli)

Purtroppo sempre più spesso, i media riportano fatti di cronaca nera che per la loro modalità di esecuzione richiedono l’attivazione di un procedimento penale. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza che nel tempo si sta diffondendo sempre più il cosiddetto “processo mediatico”, che ha origine nella valutazione del fatto da parte di un non addetto ai lavori e che si contrappone al reale processo che si svolge nell’aula di giustizia.
Questo implica, anche a causa della cultura filo-punitiva sempre più diffusa, che troppo spesso l’opinione pubblica propenda per un giudizio negativo, quasi una presunzione di colpevolezza, e per la conseguente irrogazione della pena nei confronti dell’imputato, ancor prima che vi sia stata la pronuncia della sentenza.
Il problema è legato, a ben vedere, ad una mancanza di comprensione della funzione della pena e della sua utilità nei confronti dei soggetti. Per questa ragione è opportuno soffermarsi a riflettere su cosa sia l’istituto della pena, anche in rapporto alle situazioni criminali che interessano maggiormente il nostro territorio nazionale.

Lo scopo che si persegue nell’ irrogare una pena

In questo contesto è opportuno domandarsi quale sia lo scopo che si persegue nell’ irrogare una pena e, soprattutto, “in primis”, capire che cosa sia la pena. Forse quest’ultima sembrerà una domanda banale, perché fin da quando siamo piccoli pensiamo alla pena come la conseguenza della violazione di una regola (intesa, qui, nella sua accezione più ampia). Ma, forse, per capire meglio il suo significato più profondo possiamo leggere le parole che Cesare Beccaria ha usato nella sua opera Dei Delitti e delle Pene: “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.”
Si inizia a intravedere che cosa? Che già un illuminista come Beccaria ha lasciato quella vecchia e vetusta idea che la pena sia un castigo, a fronte di una infrazione, la retribuzione rispetto ad un male arrecato, e asserisce che la stessa deve essere intesa come un monito, volto a far sì che il reo non compia più il reato e induca gli altri a non commetterne (effetto deterrente) e, conseguentemente, anche la collettività sia preservata da ulteriori conseguenze.
Dal 1948 queste ideologie sono state sovrastate dalla funzione rieducativa della pena. I nostri Padri Costituenti, ben consci dei fenomeni sociali, hanno compreso che lo scopo principale della giustizia deve essere quello di rieducare coloro che hanno commesso reati.
Proprio il principio della funzione rieducativa ha ispirato l’introduzione nel nostro ordinamento delle misure alternative alla detenzione, le quali, abituando il condannato alla vita di relazione, dovrebbero rendere più efficace l’opera di risocializzazione.

I  problemi legati alla esecuzione della pena

Attualmente, però, non si devono sottacere i problemi legati alla esecuzione della pena; ciò sia in relazione all’aspetto della Amministrazione della Giustizia sia alle strutture preposte alla rieducazione del reo. La macchina della giustizia, così viene denominata frequentemente dalle testate giornalistiche, è particolarmente lenta, in quanto non riesce a “smaltire” celermente tutto il carico giudiziario pendente e ciò implica che si produca il cosiddetto “arretrato”. L’effetto conseguente è che i procedimenti si concludano dopo un periodo molto lungo ed è, quindi, legittimo chiedersi se la rieducazione di colui che è condannato possa essere “reale”, dopo anni dalla commissione del reato.
Problematico è, anche, il processo di esecuzione della pena. In particolare, mi riferisco, infatti, alle strutture adibite all’espiazione, troppo spesso insufficienti e, perciò, limitanti rispetto al conseguimento delle attività rieducative. Il sovraffollamento carcerario, in quest’ottica, è un fenomeno paradigmatico.
La mancanza di strutture ricettive esterne al carcere, siano esse strutture di housing, comunità o altro incide negativamente sulla possibilità di elaborare percorsi rieducativi che possano cominciare a contribuire al superamento dell’endemico, o quantomeno ciclico, sovraffollamento carcerario.
In definitiva, facendo un bilanciamento di questa breve riflessione, ritengo che sia necessaria una svolta di paradigma culturale, in modo tale che si comprenda la funzione fondamentale della comminazione della pena: la rieducazione del reo nell’ottica del suo reinserimento all’interno della società civile. È necessario, quindi, rifuggire da qualsivoglia ideologia di politica criminale che promuova delle concezioni per le quali la punizione è “fine a se stessa”. D’altronde, è la stessa comunità che ha bisogno che tutti i suoi consociati siano in grado di comprendere l’importanza delle regole, nonché di dare il proprio contributo alla società.

La capacità di non reitare le condotte illecite 

È necessario considerare, da ultimo, che il soggetto – dopo aver espiato la pena detentiva – deve essere capace di non reiterare le condotte illecite, giacché qualsiasi reato cagiona gravissimi danni sociali ed economici. Si pensi, ad esempio, alle rapine, ai furti in appartamento, alle violenze sessuali e ai tanti reati che vengono commessi nella quotidianità e che danno a ognuno una percezione di paura che si ripercuote nelle tante azioni che compiamo nella vita di tutti i giorni. Si consideri, anche, l’impossibilità di frequentare alcuni quartieri e, addirittura, le strade dei centri cittadini al di fuori di determinate fasce orarie. Quando si rientra a casa, luogo che dovrebbe considerarsi sicuro, alcuni sono costretti a barricarsi perché tante volte c’è la preoccupazione che ci sia una “mano profana” pronta e in agguato per entrare nella nostra casa, che mette a rischio non solo i nostri beni, ma – soprattutto – le nostre stesse vite.
Sarebbe auspicabile che le case non diventassero fortini, ma luoghi in cui si possa – dopo una giornata di lavoro – rilassarsi senza alcuna preoccupazione. Sarebbe auspicabile per una donna passeggiare in un giardino senza la paura di essere violentata. Sarebbe auspicabile per un giovane studente avere in mano un cellulare, o al polso un orologio, e non avere il timore di rischiare di essere rapinato o, peggio ancora, ferito. Sarebbe auspicabile poter rispondere tranquillamente a qualsiasi numero telefonico senza il pensiero di imbattersi in un truffatore. Sarebbe auspicabile salire su un autobus e non aver paura di essere derubati. Sarebbe auspicabile poter ritornare a casa da lavoro in metropolitana, anche a ora tarda, senza l’angoscia di essere aggrediti. Ecco perché oggi più che mai si sente la necessità di far sì che il processo rieducativo, a seguito della comminazione della pena, sia efficace e riesca ad incidere concretamente sulla personalità del reo. Difatti è fuor di dubbio che solamente in una comunità nella quale tutti si prodigano al rispetto del prossimo e delle regole del vivere civile si può auspicare che i singoli individui non abbiano più timore di svolgere le usuali attività che sono, in fondo, la ricchezza della vita.
Per raggiungere questo obiettivo sono certamente lodevoli le iniziative di rieducazione extra – muraria, tutte di particolare efficacia e fra esse voglio citare – in quanto ho seguito da vicino la vicenda – quella di Maria Luisa Iavarone che , dopo il ferimento del figlio Arturo da parte di una “baby – gang “ a Napoli, ha deciso attraverso un vero e proprio capovolgimento dell’angolo di visuale di costituire la associazione “Artur” per accompagnare tanti giovani in un percorso rieducativo, avente alla base delle strutture operative capaci di instillare dei sani valori, quali: la cultura, l’arte, l’insegnamento di un mestiere, nonché tanti laboratori per promuovere la via della legalità e progetti di vita che, nel rispetto delle attitudini e preferenze personali, siano incanalati nei binari della legalità e dei valori costituzionali.

Dott. Gustavo Cioppa

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2021/11/28/la-pena-non-basta-serve-una-seria-riabilitazione-del-reo/

Il coraggio delle cicatrici

Come tutti sappiamo, esistono le “sentinelle” della Camorra: ognuno di noi, per contro, dovrebbe essere sentinella della legalità e ciò significa che quando si verificano episodi gravi, come quello di cui abbiamo parlato, non dobbiamo girarci dall’altra parte ed essere testimoni muti. Maria Luisa tiene vivo il ricordo, in modo che non si dimentichi quanto è successo ad Arturo, giacché non possiamo “abbassare la guardia”. Dobbiamo sempre rimanere attenti e consapevoli e non si può rimanere inerti dinnanzi a situazioni come quelle che sono descritte nel libro. Maria Luisa ci insegna che il muro di omertà si può e si deve rompere; solo in questo modo si potrà estirpare il male che affligge la nostra società.