«Paga o rivelo che sei omosessuale» Donna arrestata per estorsione

La 36enne e il figlio minorenne minacciavano e ricattavano da tempo un 50enne: in cambio del silenzio, gli avevano già sottratto 7 mila euro

Da un anno era vittima di ricatti, minacce da parte di una donna e del figlio minorenne che, per non rendere pubblica la sua omosessualità, lo costringevano a pagare somme di denaro. Sotto minacce continue, anche di morte, aveva già versato 7 mila euro, ma a fronte di una nuova richiesta un 50enne di Valle Lomellina, che vive con la madre disabile, ha deciso di rompere il silenzio e rivolgersi al commissariato di Vigevano. La segnalazione alla Procura di Pavia, guidata da Gustavo Cioppa, ha dato il via alle indagini coordinate dal magistrato Ilaria Perinu. Al termine dell’attività investigativa è scattata la trappola, che ha portato all’arresto nelle scorse ore di Lucrezia Renati, 36anni, residente a Casarile (Milano).

La donna si era presentata all’appuntamento con la sua vittima per ricevere 2 mila euro in contanti, ma sul posto c’erano anche gli agenti di polizia che, concluso lo scambio, sono intervenuti e l’hanno fermata. Oltre alla ricattatrice all’incontro era presente anche il suo compagno 37enne, D. V., che l’aveva accompagnata in auto ed è stato denunciato sempre per il reato di estorsione. Nella vicenda è risultato coinvolto anche il figlio 17enne di Lucrezia Renati che è stato segnalato al tribunale dei minori di Milano. Sarebbe stato, infatti, il giovane a telefonare diverse volte minacciando di morte, o di punizioni fisiche, il 50enne lomellino se non avesse provveduto a pagare per il loro silenzio.

Enrico Venni

22 gennaio 2015 | 20:16

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_22/vigevano-ricatta-omosessuale-arrestata-donna-ee52c692-a269-11e4-8580-33f724099eb6.shtml

Voghera, resti umani trovati sulla sponda di un torrente

Si ipotizza che il decesso risalga a circa un mese fa. L’arduo compito di scoprire l’identità della vittima resta appeso al filo dell’esame del Dna

Occorrerà attendere i risultati dell’autopsia per sapere a chi appartenessero quei pochi resti umani ritrovati sulle sponde del torrente. A fare la macabra scoperta di due gambe e una parte di bacino nei pressi dello Staffora, attorno alle 15.30 di martedì, è stato un anziano fungaiolo che stava setacciando le campagne tra Voghera e Cervesina in cerca di «chiodini». L’uomo, ex collaboratore dell’agenzia di pompe funebri del paese, ha immediatamente dato l’allarme e sul posto sono arrivati carabinieri, polizia, vigili del fuoco e infine gli esperti dell’istituto di medicina legale di Pavia, dove i poveri resti sono stati trasportati in attesa delle analisi.

Il sostituto procuratore Ethel Ancona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti, «un atto dovuto – ha precisato il procuratore capo Gustavo Cioppa – per poter procedere con le indagini». L’esame autoptico in programma per il pomeriggio di mercoledì dovrà rivelare innanzitutto il sesso della vittima (attraverso l’esame del femore), ma anche l’eventuale presenza di impronte o altre tracce. L’avanzato stato di decomposizione dei resti, però, non lascia molto spazio alla speranza. Quello che si ipotizza al momento è che il decesso risalga a circa un mese fa. L’arduo compito di scoprire l’identità della vittima resta appeso al filo dell’esame del Dna – sempre ammesso che si trattasse di una persona schedata – e alle ricerche a tappeto svolte dagli inquirenti nelle banche dati di persone scomparse negli ultimi mesi.

Si cerca in provincia di Pavia, ma anche in quelle limitrofe di Milano, Alessandria, Piacenza. Intanto, tra fango e nebbia, i carabinieri continuano a battere la zona del ritrovamento alla ricerca di altre parti del corpo trasportate a valle dalla piena di metà novembre. Con le alluvioni del mese scorso, infatti, il corpo potrebbe arrivare praticamente da ovunque, dagli affluenti dello Staffora o da un punto qualsiasi delle campagne inondate.

Ermanno Bidone

17 dicembre 2014 | 17:42

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_dicembre_17/voghera-resti-umani-trovati-sponda-un-torrente-807b990e-8609-11e4-a2bf-0fba46a30b83.shtml

Suicida dopo anni di abusi Lo zio rinviato a giudizio

Vigevano, la ragazza si gettò sotto il treno dopo averlo denunciato

Qualcuno quella sera l’aveva vista, a poca distanza dalla stazione di Vigevano, infilarsi le cuffie dello stereo e sdraiarsi sui binari. La musica a palla nelle orecchie, poi un ombra che arriva all’improvviso. Dicono che abbia alzato la testa proprio mentre il locomotore del regionale per Milano le passava sopra. Era il 13 maggio 2013 e Anna, 17 anni e una vita difficile, se ne andava così. Alle cinque aveva visto per l’ultima volta la madre. Un incontro nella comunità protetta in cui, per decisione dei giudici, la ragazza viveva da alcuni mesi. Da quando, facendosi forza, si era presentata alla polizia e aveva denunciato quello che era costretta a subire tra le mura di casa, una storia di abusi che andava avanti da sette anni. Gli agenti avevano messo tutto a verbale, poi Anna era stata sentita altre due volte, confermando e precisando il suo racconto. Così era partita una segnalazione al tribunale dei minorenni (che aveva affidato la ragazza a una comunità) e la Procura aveva invece fissato la data dell’incidente probatorio: avrebbe dovuto ripetere davanti al giudice le accuse contro il suo aguzzino, lo zio.

Anna, una ragazza sveglia, intelligente e molto sensibile, viveva con la madre e un fratello più piccolo. Il padre era morto di leucemia quando lei era piccola e il posto in casa era stato preso dal fratello gemello di lui, che aveva allacciato una relazione con la madre. Avrebbe dovuto prendersi cura dei bambini, invece aveva cominciato a molestare Anna quando di anni ne aveva solo dieci. Pretendeva rapporti orali e poi, con le minacce, la obbligava a non dire nulla alla madre.

Con il tempo quella situazione, in una famiglia in cui oltretutto la madre era «poco accudente», aveva finito per creare problemi psicologici alla ragazza, che non aveva più retto ed era andata alla polizia. Era l’inizio del 2013. Poco dopo, sia lei che il fratello erano stati tolti alla madre e affidati alla comunità, forse anche perché la donna avrebbe preferito che la cosa fosse messa a tacere. Infine, a maggio, pochi giorni prima dell’incidente probatorio, Anna si era uccisa. Un gesto inaspettato che aveva sorpreso sia la psicologa che la seguiva, sia gli operatori della comunità: da quando aveva fatto la denuncia pareva più serena. Al fratello aveva lasciato una lettera, piena di affetto, chiedendogli scusa: «Mi spiace che per colpa mia anche tu sei finito in comunità. Io non ce la faccio più, tu cerca di andare avanti. Ti voglio bene».

Il pm Ethel Ancona aveva avviato l’indagine contro lo zio, che anche la morte della ragazza non ha fermato. Poi, con l’accorpamento dei tribunali, il fascicolo è finito a Pavia dove il procuratore capo Gustavo Cioppa ha chiesto al pm Ancona di continuare a occuparsi del caso. Sarà lei a rappresentare l’accusa nei confronti dello zio di Anna, rinviato a giudizio per abusi sessuali continuati. L’udienza, con il rito abbreviato, è fissata per il 17 febbraio. Ma forse la sentenza arriverà tardi: l’uomo, gravemente malato, sarebbe in fin di vita.

Luigi Corvi

10 dicembre 2014 | 12:00

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_dicembre_10/suicida-anni-abusi-zio-rinviato-giudizio-2d02f870-805b-11e4-bf7c-95a1b87351f5.shtml?refresh_ce-cp

Vaccino antinfluenzale, autopsia su due anziane nel Pavese

Le donne avevano 85 e 93 anni. La Procura: «Evitare allarmismi»

C’è allarme nel Pavese per il decesso di due donne dopo la somministrazione del vaccino antinfluenzale. Sul corpo delle pensionate, Giulia Giannattasio di 85 anni e Lina Tarditi di 93, residenti in Oltrepò, la Procura di Pavia ha disposto l’autopsia. Per questo la famiglia della più anziana è stata costretta a rinviare il funerale che avrebbe dovuto tenersi martedì in mattinata. Una circostanza che ha suscitato preoccupazione nella piccola comunità di Cecima, dove la donna era residente.

Entrambe sono decedute in ospedale. L’85enne, residente a Montù Beccaria, è mancata sabato scorso in quello di Voghera. Quando le è stato somministrato il vaccino, circa cinque giorni prima, sembra che non avesse particolari problemi di salute. La 93enne Lina Tarditi è invece mancata domenica sera in ospedale a Varzi, a tre giorni di distanza dalla somministrazione, ma da quanto emerso sembra che il suo quadro clinico fosse decisamente più complicato. I medici che avevano in cura le donne hanno subito precisato di non aver utilizzato il vaccino Fluad di Novartis, di cui sono stati bloccati alcuni lotti dall’Agenzia Italiana del Farmaco dopo i casi di morti sospette delle scorse settimane. Il procuratore capo Gustavo Cioppa ha parlato della necessità di «evitare allarmismi» ma anche di «verifiche doverose» al termine delle quali la magistratura potrebbe decidere di aprire un fascicolo per omicidio colposo. Sembra comunque che la decisione di eseguire l’autopsia sui corpi delle donne sia stata presa dalla Procura più che altro per motivi precauzionali, vista la grande eco mediatica sui casi di morti sospette che, ha concluso Cioppa, richiedono una «maggiore attenzione sulla questione».

Ermanno Bidone

3 dicembre 2014 | 13:10

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_dicembre_03/vaccino-antinfluenzale-due-anziane-morte-la-somministrazione-3fd5b996-7ae4-11e4-825c-8af4d2bb568e.shtml

Furti di rame, smantellata banda a Pavia: dieci arresti

Usato come piazza di raccolta dell’«oro rosso» un ex deposito per la rottamazione delle auto, confiscato ma ancora operativo

Un’organizzazione dedita al riciclaggio del rame è stata smantellata in una complessa operazione condotta dal Comando provinciale della Forestale di Pavia, coordinato nelle indagini dal sostituto procuratore Paolo Mazza. Dieci gli ordini di custodia cautelare emessi, molti dei quali nei confronti di alcuni rom. Le accuse vanno dalla ricettazione al riciclaggio fino alla gestione illecita di rifiuti speciali e pericolosi. «“L’oro rosso” è sempre più facile preda di bande organizzate, spesso composte da stranieri – ha spiegato il procuratore di Pavia, Gustavo Adolfo Cioppa — I furti stanno creando sempre più disagi e danni economici alla comunità: con linee ferroviarie o elettriche interrotte creano ripercussioni economiche per migliaia di euro». Nell’operazione denominata «Waste Red and Gold» sono stati sequestrati anche quattro siti che servivano a ripulire la refurtiva e a reinserirla nel mercato della produzione di materiali con rame. La base operativa a Monticelli Pavese (Pavia), in un deposito di proprietà di Fabio Luca Loda, 47anni, la mente dell’organizzazione, secondo quanto appurato dagli investigatori attraverso intercettazioni, pedinamenti e filmati.

Le bande di rom operanti sul territorio facevano riferimento a loro responsabili che portavano il rame rubato al deposito della Loda Srl. Qui veniva trattato fisicamente e poi, attraverso due società di Pieve Emanuele, nell’hinterland milanese, la Somea e la Cosmital, pulito fiscalmente con un sistema di auto-fatturazioni e venduto ad aziende che lo utilizzavano per realizzare prodotti finali. Se ai rom inizialmente veniva pagato 1-2 euro al chilo, la vendita agli utilizzatori finali era a cifre superiori almeno cinque volte. Un business che aveva la sua base operativa in quello che a Monticelli Pavese era un sito di demolizione auto illegale, prima sequestrato e poi confiscato nel 2005, ma ancora operativo. Per questo, il sindaco del paese della Bassa Pavese, Enrico Berneri, e il comandante della polizia locale sono stati raggiunti da un avviso di garanzia per le presunte responsabilità legate proprio al mancato controllo dei beni confiscati.

Enrico Venni

21 ottobre 2014 | 13:24

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_ottobre_21/furti-rame-smantellata-banda-pavia-dieci-arresti-4872b95c-5913-11e4-aac9-759f094570d5.shtml

Resta in carcere il padre omicida «Lissi ha agito contro natura»

Il gip: «Voleva liberarsi dei legami familiari, è senza emozioni». L’ordinanza ripercorre le fasi dell’uccisione di moglie e figli

Il papà assassino di Motta Visconti ha agito «con piena lucidità e convinzione», s’è mostrato «privo di sentimenti e incapace di mostrare emozioni» e anche durante l’interrogatorio di garanzia «è apparso totalmente indifferente all’accaduto». Le parole del gip di Pavia, Anna Maria Oddone, sono la conclusione di sei pagine di indizi e accuse che motivano l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per Carlo Lissi, il 31enne che sabato sera ha ucciso a coltellate la moglie Maria Cristina Omes e i figli Giulia, di quasi cinque anni, e Gabriele, di soli venti mesi.
Secondo il giudice, Lissi «ha agito contro natura per liberarsi dai vincoli familiari» preferendo «uccidere la moglie piuttosto che affrontare il pur difficile percorso della separazione». Per il magistrato del Tribunale di Pavia – competente per la zona di Motta Visconti – «ciò che è ancora peggio, è il fatto che abbia voluto uccidere i figli dai quali non si sarebbe “liberato” neppure se avesse abbandonato la moglie».

La «doppia versione»

L’informatico, assistito dall’avvocato milanese Corrado Limentani, durante l’interrogatorio di garanzia di mercoledì s’è avvalso della facoltà di non rispondere. Ha preferito non ripetere la doppia confessione di domenica sera. Prima quella durante le spontanee dichiarazioni davanti ai carabinieri del Nucleo investigativo, poi quella davanti al sostituto di Pavia, Giovanni Benelli, e al procuratore capo, Gustavo Cioppa. Parole riportate nell’ordinanza di custodia cautelare e che descrivono le due facce di Lissi. Quella del marito affranto che «regge la parte» davanti ai carabinieri che lo interrogano subito dopo aver trovato i corpi in casa, di ritorno dalla partita della Nazionale. Una testimonianza piena di lacune e punti di «incongruenza» talmente grandi da far da subito escludere agli inquirenti che il triplice omicidio possa essere maturato al di fuori dell’ambito familiare. Poi, quando i carabinieri gli fanno il nome della collega di lavoro della quale s’era invaghito, Lissi confessa: «Dopo che io e mia moglie abbiamo fatto l’amore sul divano sono andato in cucina, ero in mutande. Ho preso da un cassetto un coltello da cucina a lama liscia con manico marrone. Parlo di un coltello grande, non di quelli che si usano per il pasto». Dopo aver colpito la moglie, infierisce sui figli. «Subito ho iniziato a mettere in disordine la casa per simulare una rapina, forse avevo già iniziato a farlo dopo aver ucciso mia moglie».

«Anomalo concetto di libertà»

Nel racconto dell’orrore, il padre assassino si sofferma su alcuni dettagli: «Preciso che per tenere in mano il coltello avevo usato due stracci da cucina. Ho fatto cadere il coltello in un tombino, credo di aver sentito il rumore dell’acqua quando è caduto. Ho proseguito lungo la strada e all’altezza di un ponte ho abbassato il finestrino destro e ho lanciato i due stracci in direzione del fiume che scorre sotto a un ponte». Il legale nei prossimi giorni chiederà una consulenza psichiatrica per chiarire le condizioni di salute del 31enne. Sabato mattina a Motta Visconti ci saranno i funerali delle tre vittime. Scrive il gip Oddone: «Nel vivere quotidiano ogni persona è sottoposta a vincoli e obblighi, siano imposti dall’esterno o auto assunti, come quelli derivanti dal matrimonio o dalla procreazione. Lissi ha maturato un concetto di libertà che non prevede il rispetto dei limiti: siano essi derivanti dalla libertà altrui o dalla sopravvivenza di coloro che lo circondano. Anche una situazione di totale normalità potrebbe indurre l’indagato a eliminare coloro che a suo parere ostacolano il raggiungimento dei suoi fini».

Cesare Giuzzi

20 giugno 2014 | 09:17

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_giugno_20/resta-carcere-padre-omicida-lissi-ha-agito-contro-natura-bab03588-f849-11e3-8b47-5fd177f63c37.shtml

Il padre che ha ucciso moglie e figli: «Ci pensavo già da una settimana»

I pm contestano la premeditazione

«Ci pensavo da una settimana. Ormai non avevo scelta». Carlo Lissi, il padre omicida di Motta Visconti, ha passato sette giorni pianificando la strage della villetta di via Ungaretti. Ore trascorse a pensare a quel delitto, all’idea di uccidere la moglie Maria Cristina Omes, 38 anni, sette più di lui, e i figli Giulia di quasi cinque anni e il piccolo Gabriele di soli venti mesi. Lo ha detto lo stesso Lissi davanti al pm pavese Giovanni Benelli e al procuratore capo Gustavo Cioppa. I magistrati hanno chiesto al gip la convalida del fermo emesso domenica notte per triplice omicidio aggravato. Nella richiesta di emissione di una misura cautelare nei suoi confronti gli inquirenti hanno contestato anche l’aggravante della premeditazione. Un elemento «importante» per la ricostruzione del triplice delitto, avvenuto nella tarda serata di sabato scorso, poco prima della partita tra la Nazionale e l’Inghilterra.

La costruzione dell’alibi

Oltre alle parole dello stesso Lissi – che mercoledì mattina è stato interrogato dal gip pavese Annamaria Oddone per la convalida del fermo, avvalendosi della facoltà di non rispondere – i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano hanno raccolto altri elementi che confermano, appunto, la premeditazione. Anzitutto il fatto che Lissi abbia insistito con un amico per vedere la partita dell’Italia in un bar del paese. Una circostanza anomala secondo lo stesso amico, visto che il 31enne impiegato informatico non lo aveva mai fatto prima. Quando l’amico è costretto a disdire l’appuntamento perché si sente poco bene, Lissi contatta Carlo Caserio, che vive poco lontano, e si «auto invita» via sms a casa sua dove vedrà effettivamente l’esordio della Nazionale ai Mondiali brasiliani insieme a una quindicina di persone. Per gli investigatori, Lissi non aveva altra possibilità di uscire di casa a quell’ora tarda – il match si è giocato a mezzanotte – e di approfittare della partita per costruirsi un alibi da un lato e inscenare la storia della finta rapina dall’altro.

Le autopsie per capire se aveva sedato i figli

Sempre mercoledì all’Istituto di medicina legale di Pavia le autopsie sui corpi delle tre vittime. Oltre al medico legale Marco Ballardini, presenti anche un genetista e un tossicologo e consulenti nominati dal legale di Lissi, Corrado Limentani. Gli inquirenti vogliono scoprire se Lissi abbia sedato i figli prima di metterli a dormire. Nelle sue confessioni il papà di Giulia e Gabriele ha detto che dopo aver affondato la lama alla gola dei figli loro non hanno avuto alcuna reazione. Nella richiesta di convalida del fermo i magistrati non hanno però inserito riferimenti al movente passionale. A quella collega di lavoro di cui Lissi s’era invaghito. La donna è stata risentita dagli inquirenti, ma non sarebbe emerso nient’altro. Lissi è in isolamento nel carcere di Torre del Gallo a Pavia. È sorvegliato a vista, dal giorno dell’omicidio non ha versato una lacrima.

Cesare Giuzzi

18 giugno 2014 | 08:06

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/14_giugno_18/padre-che-ha-ucciso-moglie-figli-ci-pensavo-gia-una-settimana-7a961b4a-f6ad-11e3-a606-b69b7fae23a1.shtml

Ha ucciso moglie e figli Lissi non risponde davanti al gip

Davanti al giudice Annamaria Oddone Lissi si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per il padre omicida chiesta l’aggravante della premeditazione

Si è avvalso della facoltà di non rispondere, Carlo Lissi, l’uomo accusato di avere ucciso la moglie e i due figli nella villa di famiglia a Motta Visconti, nel Milanese. Il 31enne, mercoledì mattina , non ha risposto alle domande del gip Annamaria Oddone, durante l’interrogatorio di garanzia. Davanti al pm pavese Giovanni Benelli e al procuratore capo Gustavo Cioppa, Lissi aveva ammesso: «Ci pensavo da una settimana. Ormai non avevo scelta».Il padre omicida di Motta Visconti, dunque, avrebbe passato sette giorni pianificando la strage della villetta di via Ungaretti. Ore trascorse a pensare a quel delitto, all’idea di uccidere la moglie Maria Cristina Omes, 38 anni, sette più di lui, e i figli Giulia di quasi cinque anni e il piccolo Gabriele di soli venti mesi. Per questo i magistrati, oltre alla richiesta di convalida del fermo, hanno contestato anche l’aggravante della premeditazione. Un elemento «importante» per la ricostruzione del triplice delitto, avvenuto nella tarda serata di sabato scorso, poco prima della partita tra la Nazionale e l’Inghilterra.

La costruzione dell’alibi

I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano hanno raccolto anche altri elementi che confermano, appunto, la premeditazione. Anzitutto il fatto che Lissi abbia insistito con un amico per vedere la partita dell’Italia in un bar del paese. Una circostanza anomala secondo lo stesso amico, visto che il 31enne impiegato informatico non lo aveva mai fatto prima. Quando l’amico è costretto a disdire l’appuntamento perché si sente poco bene, Lissi contatta Carlo Caserio, che vive poco lontano, e si «auto invita» via sms a casa sua dove vedrà effettivamente l’esordio della Nazionale ai Mondiali brasiliani insieme a una quindicina di persone. Per gli investigatori, Lissi non aveva altra possibilità di uscire di casa a quell’ora tarda – il match si è giocato a mezzanotte – e di approfittare della partita per costruirsi un alibi da un lato e inscenare la storia della finta rapina dall’altro.shadow carousel

Le autopsie per capire se aveva sedato i figli

Oggi all’Istituto di medicina legale di Pavia saranno eseguite le autopsie sui corpi delle tre vittime. Oltre al medico legale Marco Ballardini, ci saranno anche un genetista e un tossicologo e consulenti nominati dal legale di Lissi, Corrado Limentani. Gli inquirenti vogliono scoprire se Lissi abbia sedato i figli prima di metterli a dormire. Nelle sue confessioni il papà di Giulia e Gabriele ha detto che dopo aver affondato la lama alla gola dei figli loro non hanno avuto alcuna reazione.
Nella richiesta di convalida del fermo i magistrati non hanno però inserito riferimenti al movente passionale. A quella collega di lavoro di cui Lissi s’era invaghito. La donna è stata risentita dagli inquirenti, ma non sarebbe emerso nient’altro. Lissi è in isolamento nel carcere di Torre del Gallo a Pavia. È sorvegliato a vista, dal giorno dell’omicidio non ha versato una lacrima.

Cesare Giuzzi e Redazione Milano Online

18 giugno 2014 | 13:10

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_giugno_18/ha-ucciso-moglie-figli-lissi-non-risponde-al-gip-c5573b18-f6d6-11e3-a606-b69b7fae23a1.shtml

Lissi invaghito della collega Lei: «L’ho sempre respinto»

L’uomo che ha ucciso moglie e figli: «Mi ero innamorato di un’altra». La 24enne: «Non gli ho mai dato un filo di speranza»

Una corte insistita, fastidiosa. «Ma lo giuro, non è mai accaduto nulla, non gli ho mai dato un filo di speranza». La ragazza del mistero lo ripete più volte agli inquirenti e questi ultimi a loro volta lo scandiscono perché non vi sia margine di dubbio: «Tra Lissi e la sua collega non c’è mai stata alcuna relazione sentimentale». Eppure tocca anche a questa ventiquattrenne la trafila delle domande di carabinieri e magistrati per arrivare a una conclusione: il piano omicida è nato e maturato solo ed esclusivamente nella mente di quel dipendente per tutti irreprensibile.

Barbara, è il nome di fantasia della giovane, da due anni circa lavora alla Wolters Kluwer, l’azienda informatica di Assago (Milano) di cui era dipendente anche Carlo Lissi. La notizia della strage nella villetta di Motta Visconti si diffonde mentre Barbara sta trascorrendo un fine di settimana in montagna con il fidanzato con cui da poco è andata a convivere. La giovane è in Svizzera ma alle 11 di sera di domenica varca il cancello della caserma dei carabinieri di Pavia dove ci sono anche i pm Gustavo Cioppa e Giovanni Benelli. E lì racconta il tormento di cui era vittima da parte di Lissi, la cui autodifesa comincia a cedere. «Tutto è iniziato con qualche complimento quando ci si incrociava in corridoio o in qualche momento di pausa» è il senso di quanto detto senza tentennamenti dalla ragazza. Una testimonianza che combacia con quanto nel frattempo già emerso nei confronti di Carlo, che in molti descrivono come un «piacione», uno abituato a far galanterie.

«Ma negli ultimi due mesi – prosegue il racconto di Barbara – il suo atteggiamento si era fatto più insistente, più esplicito: si è passati agli inviti a cena, alle dichiarazioni d’amore, ai paroloni: diceva di essere pazzo di me, io rispondevo che non ci pensavo nemmeno a iniziare una storia. Ma lui non si dava pace».
Nonostante tutto Barbara ha sempre interpretato le avances del collega come un semplice «incapricciamento», qualcosa che non sarebbe mai andato oltre i confini del lecito. E a questo proposito vengono sottolineati due dettagli importanti. Nella sua testimonianza la donna riferisce di non aver mai subito molestie di tipo fisico. E che inoltre non aveva mai ritenuto indispensabile parlare con qualcuno di quel collega divenuto improvvisamente così fastidioso, né agli amici né ai superiori in azienda. «Non c’è mai stato nulla che potesse configurare un’ipotesi di stalking» confermano dalla procura di Pavia.

Chi in compenso non faceva mistero di quella passione divenuta irrefrenabile era Carlo Lissi: in ufficio ai colleghi ne avrebbe parlato e nelle stanze della Wolters Kluwer in parecchi si erano resi conto che dove c’era Barbara un attimo dopo compariva Carlo, che lui la attendeva appena possibile e le «stava addosso». Forse gli echi di quella passione erano giunti anche a Cristina Omes, la moglie di Lissi. Un mese fa sulla sua pagina facebook scriveva: «Non trattare mai male una donna, non ferirla. Una donna, quando è ferita, cambia».

Claudio Del Frate e Giovanna Maria Fagnani

17 giugno 2014 | 08:30

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/14_giugno_17/lissi-invaghito-collega-lei-l-ho-sempre-respinto-0ac49712-f5e8-11e3-9bf3-84ef22f2d84d.shtml

«L’uccidevo, lei chiedeva: perché? Il divorzio? Restavano i figli»

Carlo Lissi ha ucciso la moglie e i due figli: «Mi ero innamorato di un’altra. La famiglia per me era diventata una gabbia»

«Mentre la colpivo alle gola Maria Cristina ha continuato a gridarmi “perché… perché?”». Carlo Lissi crolla alle due di notte. Un carabiniere lo guarda negli occhi, pronuncia il nome di una collega di lavoro. Il «segreto» dell’irreprensibile padre di famiglia si sgretola dopo una trentina di interrogatori. Sono stati ascoltati i parenti, gli amici, i colleghi di lavoro. In cerca di una sfumatura, un indizio da trasformare in movente, una macchia in un’esistenza immacolata. L’ultimo tassello è appunto il racconto di quella donna: «Aveva tentato degli approcci, sempre respinti. Non c’è mai stato niente».

Il racconto dell’omicidio

Il lato oscuro del bravo ragazzo di Motta Visconti è un pettegolezzo conosciuto a pochi. S’era invaghito di quella collega fino a trasformarla in un’ossessione. Lo dice ai carabinieri appena sente quel nome. Tiene la testa tra le mani e inizia a parlare: «Voglio che mi sia dato il massimo della pena. Sono stato io a uccidere mia moglie e i miei due figli». Lo conferma mezz’ora dopo davanti al magistrato. Il padre di famiglia è un padre assassino. È lui che sabato sera ha ucciso la moglie Maria Cristina Omes, 38 anni, e i piccoli Giulia di quasi cinque anni e Gabriele di venti mesi appena, nella villetta di via Ungaretti. Li ha sgozzati con un coltello da cucina, poi è andato con gli amici a vedere la partita dell’Italia. Carlo Lissi è stato per un giorno intero nella caserma dei carabinieri. Fin lì, l’irreprensibile impiegato della Wolters Kluver di Assago, non ha battuto ciglio. Non ha chiesto di tornare a casa, non s’è lamentato mentre gli investigatori gli sequestravano i vestiti e fotografavano piccole ferite sulle dita della mano destra lasciate dalla lama del coltello mentre lottava con la moglie. Non ha versato lacrime neppure dopo, al termine di quei venti minuti di confessione. Non per Maria Cristina e neppure per Giulia e Gabriele. «La famiglia era una gabbia. Non sopportavo più questa vita». S’era sposato sei anni fa con Maria Cristina di sette anni più grande. «Si volevano bene, andavano d’accordo. Non ho mai assistito a litigi particolari», racconta la madre. Prima di sterminare la famiglia Carlo Lissi ha fatto l’amore con la moglie. Hanno messo a letto i figli: Giulia nella sua cameretta, il piccolo Gabriele sul lettone matrimoniale. Poi sono scesi in soggiorno, sul divano di tessuto bianco accanto a un pianoforte verticale e alle foto dei bambini. Sono quasi le undici di sera. Lissi si alza, adosso ha solo gli slip grigi. Lascia che la moglie si rivesta, lui va in bagno, poi in cucina dove prende un coltello con una lama da 30 centimetri (trovato ieri in un tombino di via Mazzini). «Sono tornato in salotto e mia moglie era seduta sul divano che guardava la televisione. Da dietro l’ho colpita, credo alla gola – dice al pm di Pavia, Giovanni Benelli -. Lei si è subito alzata e ha cercato di scappare. L’ho raggiunta e l’ho colpita nuovamente all’altezza del collo. Lei a quel punto a cercato di prendermi il coltello afferrandomi la mano destra». La donna trova la forza di parlare, di chiedere i motivi di tanta, improvvisa, furia: «Inizialmente ha detto “no” e poi ha solo continuato a gridarmi “perché… perché?”. Dopo che si è accasciata a terra sono salito al piano superiore, sono andato nella camera di Giulia, la porta era aperta ma lei dormiva non aveva sentito nulla». La piccola viene colpita alla gola: «Non ha detto nulla. Poi sono entrato in camera da letto dove c’era mio figlio Gabriele. Anche lui dormiva. Era a pancia in su e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola: l’ho fatto poiché non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie di separarci, cosa che io invece volevo fare». «Ma non le bastava il divorzio?», chiede il magistrato. «No. Con il divorzio i figli restano».

La finta rapina e la partita

Dopo la mattanza, Lissi scende nella taverna, si fa una doccia e lava via le macchie di sangue dal corpo. Solo due piccole tracce restano sugli slip, ma non se ne accorge. Poi infila un paio di jeans e una t-shirt blu, rovescia alcuni cassetti, apre la cassaforte per simulare una rapina ed esce di casa per andare a vedere la Nazionale. Quando rientra, alle 2.10, dice di essersi spogliato nella taverna per non svegliare nessuno, di essere salito al buio, di aver trovato i corpi, di aver tentato di soccorrerli senza tuttavia macchiarsi neppure la suola delle scarpe. Il racconto non regge. «Era fondamentale risolvere il caso nel minor tempo possibile per non dare vantaggi all’assassino, per non compromettere prove importanti – dice il procuratore di Pavia, Gustavo Cioppa -. Il lavoro dei carabinieri è stato straordinario». Alle 22 i vertici del comando provinciale di Milano – il generale Maurizio Stefanizzi, i tenenti colonnelli Biagio Storniolo e Alessio Carparelli – decidono di fermare il padre assassino. Gli mettono in mano ventisei pagine piene di accuse. Quattro ore dopo inizia la confessione.

Cesare Giuzzi

17 giugno 2014 | 08:20

Fonte: https://milano.corriere.it/notizie/14_giugno_17/uccidevo-lei-chiedeva-perche-divorzio-restavano-figli-eb2e2338-f5e6-11e3-9bf3-84ef22f2d84d.shtml