La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia
“Credo che il carcere debba essere un luogo di rieducazione e avere, dunque, le caratteristiche delle istituzioni educative, attente a tirar fuori dallo studente ogni elemento che gli permetta di diventare più utile alla società”
(V. Andreoli)
Purtroppo sempre più spesso, i media riportano fatti di cronaca nera che per la loro modalità di esecuzione richiedono l’attivazione di un procedimento penale. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza che nel tempo si sta diffondendo sempre più il cosiddetto “processo mediatico”, che ha origine nella valutazione del fatto da parte di un non addetto ai lavori e che si contrappone al reale processo che si svolge nell’aula di giustizia.
Questo implica, anche a causa della cultura filo-punitiva sempre più diffusa, che troppo spesso l’opinione pubblica propenda per un giudizio negativo, quasi una presunzione di colpevolezza, e per la conseguente irrogazione della pena nei confronti dell’imputato, ancor prima che vi sia stata la pronuncia della sentenza.
Il problema è legato, a ben vedere, ad una mancanza di comprensione della funzione della pena e della sua utilità nei confronti dei soggetti. Per questa ragione è opportuno soffermarsi a riflettere su cosa sia l’istituto della pena, anche in rapporto alle situazioni criminali che interessano maggiormente il nostro territorio nazionale.
Lo scopo che si persegue nell’ irrogare una pena
In questo contesto è opportuno domandarsi quale sia lo scopo che si persegue nell’ irrogare una pena e, soprattutto, “in primis”, capire che cosa sia la pena. Forse quest’ultima sembrerà una domanda banale, perché fin da quando siamo piccoli pensiamo alla pena come la conseguenza della violazione di una regola (intesa, qui, nella sua accezione più ampia). Ma, forse, per capire meglio il suo significato più profondo possiamo leggere le parole che Cesare Beccaria ha usato nella sua opera Dei Delitti e delle Pene: “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.”
Si inizia a intravedere che cosa? Che già un illuminista come Beccaria ha lasciato quella vecchia e vetusta idea che la pena sia un castigo, a fronte di una infrazione, la retribuzione rispetto ad un male arrecato, e asserisce che la stessa deve essere intesa come un monito, volto a far sì che il reo non compia più il reato e induca gli altri a non commetterne (effetto deterrente) e, conseguentemente, anche la collettività sia preservata da ulteriori conseguenze.
Dal 1948 queste ideologie sono state sovrastate dalla funzione rieducativa della pena. I nostri Padri Costituenti, ben consci dei fenomeni sociali, hanno compreso che lo scopo principale della giustizia deve essere quello di rieducare coloro che hanno commesso reati.
Proprio il principio della funzione rieducativa ha ispirato l’introduzione nel nostro ordinamento delle misure alternative alla detenzione, le quali, abituando il condannato alla vita di relazione, dovrebbero rendere più efficace l’opera di risocializzazione.
I problemi legati alla esecuzione della pena
Attualmente, però, non si devono sottacere i problemi legati alla esecuzione della pena; ciò sia in relazione all’aspetto della Amministrazione della Giustizia sia alle strutture preposte alla rieducazione del reo. La macchina della giustizia, così viene denominata frequentemente dalle testate giornalistiche, è particolarmente lenta, in quanto non riesce a “smaltire” celermente tutto il carico giudiziario pendente e ciò implica che si produca il cosiddetto “arretrato”. L’effetto conseguente è che i procedimenti si concludano dopo un periodo molto lungo ed è, quindi, legittimo chiedersi se la rieducazione di colui che è condannato possa essere “reale”, dopo anni dalla commissione del reato.
Problematico è, anche, il processo di esecuzione della pena. In particolare, mi riferisco, infatti, alle strutture adibite all’espiazione, troppo spesso insufficienti e, perciò, limitanti rispetto al conseguimento delle attività rieducative. Il sovraffollamento carcerario, in quest’ottica, è un fenomeno paradigmatico.
La mancanza di strutture ricettive esterne al carcere, siano esse strutture di housing, comunità o altro incide negativamente sulla possibilità di elaborare percorsi rieducativi che possano cominciare a contribuire al superamento dell’endemico, o quantomeno ciclico, sovraffollamento carcerario.
In definitiva, facendo un bilanciamento di questa breve riflessione, ritengo che sia necessaria una svolta di paradigma culturale, in modo tale che si comprenda la funzione fondamentale della comminazione della pena: la rieducazione del reo nell’ottica del suo reinserimento all’interno della società civile. È necessario, quindi, rifuggire da qualsivoglia ideologia di politica criminale che promuova delle concezioni per le quali la punizione è “fine a se stessa”. D’altronde, è la stessa comunità che ha bisogno che tutti i suoi consociati siano in grado di comprendere l’importanza delle regole, nonché di dare il proprio contributo alla società.
La capacità di non reitare le condotte illecite
È necessario considerare, da ultimo, che il soggetto – dopo aver espiato la pena detentiva – deve essere capace di non reiterare le condotte illecite, giacché qualsiasi reato cagiona gravissimi danni sociali ed economici. Si pensi, ad esempio, alle rapine, ai furti in appartamento, alle violenze sessuali e ai tanti reati che vengono commessi nella quotidianità e che danno a ognuno una percezione di paura che si ripercuote nelle tante azioni che compiamo nella vita di tutti i giorni. Si consideri, anche, l’impossibilità di frequentare alcuni quartieri e, addirittura, le strade dei centri cittadini al di fuori di determinate fasce orarie. Quando si rientra a casa, luogo che dovrebbe considerarsi sicuro, alcuni sono costretti a barricarsi perché tante volte c’è la preoccupazione che ci sia una “mano profana” pronta e in agguato per entrare nella nostra casa, che mette a rischio non solo i nostri beni, ma – soprattutto – le nostre stesse vite.
Sarebbe auspicabile che le case non diventassero fortini, ma luoghi in cui si possa – dopo una giornata di lavoro – rilassarsi senza alcuna preoccupazione. Sarebbe auspicabile per una donna passeggiare in un giardino senza la paura di essere violentata. Sarebbe auspicabile per un giovane studente avere in mano un cellulare, o al polso un orologio, e non avere il timore di rischiare di essere rapinato o, peggio ancora, ferito. Sarebbe auspicabile poter rispondere tranquillamente a qualsiasi numero telefonico senza il pensiero di imbattersi in un truffatore. Sarebbe auspicabile salire su un autobus e non aver paura di essere derubati. Sarebbe auspicabile poter ritornare a casa da lavoro in metropolitana, anche a ora tarda, senza l’angoscia di essere aggrediti. Ecco perché oggi più che mai si sente la necessità di far sì che il processo rieducativo, a seguito della comminazione della pena, sia efficace e riesca ad incidere concretamente sulla personalità del reo. Difatti è fuor di dubbio che solamente in una comunità nella quale tutti si prodigano al rispetto del prossimo e delle regole del vivere civile si può auspicare che i singoli individui non abbiano più timore di svolgere le usuali attività che sono, in fondo, la ricchezza della vita.
Per raggiungere questo obiettivo sono certamente lodevoli le iniziative di rieducazione extra – muraria, tutte di particolare efficacia e fra esse voglio citare – in quanto ho seguito da vicino la vicenda – quella di Maria Luisa Iavarone che , dopo il ferimento del figlio Arturo da parte di una “baby – gang “ a Napoli, ha deciso attraverso un vero e proprio capovolgimento dell’angolo di visuale di costituire la associazione “Artur” per accompagnare tanti giovani in un percorso rieducativo, avente alla base delle strutture operative capaci di instillare dei sani valori, quali: la cultura, l’arte, l’insegnamento di un mestiere, nonché tanti laboratori per promuovere la via della legalità e progetti di vita che, nel rispetto delle attitudini e preferenze personali, siano incanalati nei binari della legalità e dei valori costituzionali.
Dott. Gustavo Cioppa
Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia
Fonte: https://www.ilticino.it/2021/11/28/la-pena-non-basta-serve-una-seria-riabilitazione-del-reo/