Carlo Lissi ha ucciso la moglie e i due figli: «Mi ero innamorato di un’altra. La famiglia per me era diventata una gabbia»
«Mentre la colpivo alle gola Maria Cristina ha continuato a gridarmi “perché… perché?”». Carlo Lissi crolla alle due di notte. Un carabiniere lo guarda negli occhi, pronuncia il nome di una collega di lavoro. Il «segreto» dell’irreprensibile padre di famiglia si sgretola dopo una trentina di interrogatori. Sono stati ascoltati i parenti, gli amici, i colleghi di lavoro. In cerca di una sfumatura, un indizio da trasformare in movente, una macchia in un’esistenza immacolata. L’ultimo tassello è appunto il racconto di quella donna: «Aveva tentato degli approcci, sempre respinti. Non c’è mai stato niente».
Il racconto dell’omicidio
Il lato oscuro del bravo ragazzo di Motta Visconti è un pettegolezzo conosciuto a pochi. S’era invaghito di quella collega fino a trasformarla in un’ossessione. Lo dice ai carabinieri appena sente quel nome. Tiene la testa tra le mani e inizia a parlare: «Voglio che mi sia dato il massimo della pena. Sono stato io a uccidere mia moglie e i miei due figli». Lo conferma mezz’ora dopo davanti al magistrato. Il padre di famiglia è un padre assassino. È lui che sabato sera ha ucciso la moglie Maria Cristina Omes, 38 anni, e i piccoli Giulia di quasi cinque anni e Gabriele di venti mesi appena, nella villetta di via Ungaretti. Li ha sgozzati con un coltello da cucina, poi è andato con gli amici a vedere la partita dell’Italia. Carlo Lissi è stato per un giorno intero nella caserma dei carabinieri. Fin lì, l’irreprensibile impiegato della Wolters Kluver di Assago, non ha battuto ciglio. Non ha chiesto di tornare a casa, non s’è lamentato mentre gli investigatori gli sequestravano i vestiti e fotografavano piccole ferite sulle dita della mano destra lasciate dalla lama del coltello mentre lottava con la moglie. Non ha versato lacrime neppure dopo, al termine di quei venti minuti di confessione. Non per Maria Cristina e neppure per Giulia e Gabriele. «La famiglia era una gabbia. Non sopportavo più questa vita». S’era sposato sei anni fa con Maria Cristina di sette anni più grande. «Si volevano bene, andavano d’accordo. Non ho mai assistito a litigi particolari», racconta la madre. Prima di sterminare la famiglia Carlo Lissi ha fatto l’amore con la moglie. Hanno messo a letto i figli: Giulia nella sua cameretta, il piccolo Gabriele sul lettone matrimoniale. Poi sono scesi in soggiorno, sul divano di tessuto bianco accanto a un pianoforte verticale e alle foto dei bambini. Sono quasi le undici di sera. Lissi si alza, adosso ha solo gli slip grigi. Lascia che la moglie si rivesta, lui va in bagno, poi in cucina dove prende un coltello con una lama da 30 centimetri (trovato ieri in un tombino di via Mazzini). «Sono tornato in salotto e mia moglie era seduta sul divano che guardava la televisione. Da dietro l’ho colpita, credo alla gola – dice al pm di Pavia, Giovanni Benelli -. Lei si è subito alzata e ha cercato di scappare. L’ho raggiunta e l’ho colpita nuovamente all’altezza del collo. Lei a quel punto a cercato di prendermi il coltello afferrandomi la mano destra». La donna trova la forza di parlare, di chiedere i motivi di tanta, improvvisa, furia: «Inizialmente ha detto “no” e poi ha solo continuato a gridarmi “perché… perché?”. Dopo che si è accasciata a terra sono salito al piano superiore, sono andato nella camera di Giulia, la porta era aperta ma lei dormiva non aveva sentito nulla». La piccola viene colpita alla gola: «Non ha detto nulla. Poi sono entrato in camera da letto dove c’era mio figlio Gabriele. Anche lui dormiva. Era a pancia in su e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola: l’ho fatto poiché non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie di separarci, cosa che io invece volevo fare». «Ma non le bastava il divorzio?», chiede il magistrato. «No. Con il divorzio i figli restano».
La finta rapina e la partita
Dopo la mattanza, Lissi scende nella taverna, si fa una doccia e lava via le macchie di sangue dal corpo. Solo due piccole tracce restano sugli slip, ma non se ne accorge. Poi infila un paio di jeans e una t-shirt blu, rovescia alcuni cassetti, apre la cassaforte per simulare una rapina ed esce di casa per andare a vedere la Nazionale. Quando rientra, alle 2.10, dice di essersi spogliato nella taverna per non svegliare nessuno, di essere salito al buio, di aver trovato i corpi, di aver tentato di soccorrerli senza tuttavia macchiarsi neppure la suola delle scarpe. Il racconto non regge. «Era fondamentale risolvere il caso nel minor tempo possibile per non dare vantaggi all’assassino, per non compromettere prove importanti – dice il procuratore di Pavia, Gustavo Cioppa -. Il lavoro dei carabinieri è stato straordinario». Alle 22 i vertici del comando provinciale di Milano – il generale Maurizio Stefanizzi, i tenenti colonnelli Biagio Storniolo e Alessio Carparelli – decidono di fermare il padre assassino. Gli mettono in mano ventisei pagine piene di accuse. Quattro ore dopo inizia la confessione.
Cesare Giuzzi
17 giugno 2014 | 08:20